La più ardita Operazione dei servizi segreti italiani nel corso della prima Guerra mondiale
Il mestiere di spia ha affascinato l'uomo sin dalla sua prima comparsa sulla Terra. Da sempre, l'agente segreto è stato sinonimo di avventura e nello stesso tempo d’inquietudine. La sua è, comunque, una professione rischiosa, che lo costringe a essere molto attento e a sospettare di tutti, nemici e presunti amici compresi! Uno per tutti lo dimostra il caso della bella ballerina olandese Mata Hari, la spia tedesca che, nel 1917, sospettata di fare il doppio gioco, fu tradita dai suoi stessi committenti e fatta intercettare dal controspionaggio francese, che la condannò a morte.
I sabotatori in azione
Mata Hari fu una delle tante spie vittime della prima Guerra mondiale. Sin dalla sua entrata in quel tremendo conflitto, l'Italia era stata costretta ad assistere impotente a una serie di gravi attentati alle sue più delicate strutture militari. Il 27 settembre 1915, la corazzata Benedetto Brin, varata nel 1901, già impiegata nel bombardamento di Tripoli nel 1911, fu fatta saltare in aria da un’esplosione: morirono 21 ufficiali su 30 e 433 marinai su 906. Un altro incidente più grave si registrò il 3 luglio 1916 al molo Pirelli-Pagliari, nel golfo di La Spezia, dove saltò in aria un vagone carico di dinamite. Le vittime furono 265. Il disastro più grave sarebbe stato l’affondamento della corazzata Leonardo da Vinci, che, mentre era all’ancora nel Mar Piccolo di Taranto, si capovolse e si adagiò a 11 metri di profondità. Perdettero la vita 21 ufficiali e 227 marinai.
La serie di sabotaggi continuò ancora: il porto di Genova fu sconvolto da un incendio scoppiato in più punti; a Livorno saltò in aria il piroscafo Etruria; ad Ancona le fiamme distrussero un hangar dei dirigibili della marina militare; fu fatto saltare in aria il dinamitificio del Cengio, in provincia di Savona; a Terni fu sabotata la centrale idroelettrica, che forniva energia alla fonderia e quindi all’industria bellica della città.
Una prima falla nel fronte dei sabotatori si aprì quando un certo Giuseppe Larese, un italiano naturalizzato austriaco, fu arrestato in flagrante mentre stava minando la centrale idroelettrica delle Marmore Alte, vicino a Terni. Prima di essere fucilato, nella speranza di salvarsi la vita, confidò quanto sapeva sui mandanti. Ne sapeva poco, ma quel poco riconduceva alla sezione dell’Evidenzbüro, il controspionaggio austriaco a Zurigo, come mandante e organizzatore.
Una seconda falla si aprì nel fronte dei traditori quando un altro sabotatore italiano, dopo aver minato le centrali elettriche del Chiamonte e del Sempione, all’ultimo momento, colto da rimorso, si pentì e si costituì alle forze dell’ordine. Quel poco che l’attentatore poteva sapere sui mandanti confermò la convinzione che la centrale spionistica aveva sede a Zurigo, alla Bahnhofstrasse 69, in das Haus Zur Trülle, ed era diretta da Rudolf Mayer, capitano di corvetta della Marina austro-ungarica. Gli uffici del Mayer non facevano parte, come tanti scrivono, del Consolato generale austroungarico di Zurigo, che era, invece, ubicato alla Rämistrasse 7. Il controspionaggio della Regia Marina riuscì persino a sapere che gli esecutori materiali dei sabotaggi agivano soltanto a fine di lucro e venne anche in possesso della lista delle tariffe per ogni azione: 300.000 lire per la messa fuori uso di un sommergibile o un cacciatorpediniere; 500.000 lire per un incrociatore; 1.000.000 di lire per una corazzata. Si scoprì allora anche che i vari gruppi, come vuole la legge dello spionaggio, agivano a compartimenti stagni, ma avevano come punti di riferimento sempre il capitano Mayer in Svizzera e mons. Rudolph Gerlach in Vaticano. Si conobbero perfino le modalità di pagamento per i sabotatori: a missione compiuta, il versamento dell’equivalente in franchi svizzeri veniva accreditato su conti cifrati presso una banca di Lugano.
L’azione del controspionaggio italiano
Mons. Gerlach, arrivato al sacerdozio dopo aver tentato la carriera di ufficiale nell’esercito tedesco, era stato nominato cameriere segreto dal nuovo Papa Benedetto XV, nel 1914, e dirigeva dal Vaticano una potente rete di spionaggio al servizio degli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria). Per la sua posizione, Gerlach, che aveva la piena fiducia del Papa, era in grado di carpire i più importanti segreti militari italiani e passarli all’Evidenzbüro a Zurigo, che finanziava i sabotatori e i disfattisti italiani. Quando l'intrigo fu scoperto, la Segreteria di Stato e lo stesso Pontefice fecero di tutto per tentare di bloccare il procedimento giudiziario contro Gerlach. Alla fine il processo si fece, ma la sentenza non poté essere eseguita, perché «il cameriere segreto di sua Santità», il 6 gennaio 1917, era stato scortato sino alla frontiera con la neutrale Svizzera.
Che il Gerlach fosse nato più per fare la spia che il monsignore lo dimostrò il fatto che, qualche anno dopo, abbandonò l’abito talare, per arruolarsi nei servizi segreti inglesi. Morirà in Gran Bretagna, nel 1945, dove viveva come agente di Sua Maestà britannica.
La Regia Marina militare aveva, intanto creato, un nucleo speciale per neutralizzare i sabotatori. A dirigerlo erano stati chiamati il capitano di vascello Marino Laureati e il tenente di vascello Pompeo Aloisi, mandato a Berna come addetto di Legazione. A loro furono aggiunti due volontari di origine triestina con perfetta conoscenza della lingua tedesca: i tenenti Ugo Cappelletti e Salvatore Bonnes. Il Cappelletti fu inviato come viceconsole a Zurigo, con il nome di Damiani, e il Bonnes, come addetto commerciale, alla Legazione italiana a Berna.
Il piano del nostro controspionaggio era temerario: prevedeva un blitz negli uffici del Mayer e l’apertura della cassaforte per impossessarsi dei documenti segreti per risalire a tutta l’organizzazione dei sabotatori che agivano in Italia. Come operatore sul posto fu scelto il sottoufficiale della Marina Stenos Tanzini, specialista torpediniere passato ai servizi segreti, con il compito di studiare le abitudini di Rudolph Mayer e quelle degli impiegati del suo ufficio. Il suo compito era facilitato dalla posizione della sede ubicata tra la Bahnhofstrasse, la Seidengasse e la Sihlstrasse, tutte strade molto frequentate per la presenza di tanti negozi, che gli permettevano, con il continuo cambio del camuffamento, il controllo delle persone che la frequentavano.
Non c’era il sospettato andirivieni di anarchici e fuoriusciti italiani, ma uno dei frequentatori assidui era un nostro connazionale che il Tanzini, grazie ai suoi informatori, non tardò a riconoscere per l’avvocato Livio Bini di Firenze. Le indagini appurarono che l’avv. Bini, fuggito in Svizzera per evitare il carcere per una condanna per bancarotta, era stato assoldato dal Mayer. Nonostante fosse ricercato, continuava, però, a fare la spola con Firenze per curare i suoi affari e, forse, anche, come portaordini del nemico. Per il nostro controspionaggio fu un gioco arrestarlo con precauzione a Firenze e costringerlo a fare il doppiogioco, con la promessa d’immunità a operazione finita.
Per portare a buon esito il colpo bisognava avere ancora un esperto di serrature e un abile scassinatore di casseforti. Per il primo la scelta cadde su Remigio Bronzin, un fabbro della ditta Stigler di Milano specialista nel fare doppioni di chiavi, un irredentista motivato dal suo odio per l’Austria. Per il secondo, dopo un’oculata ricerca, si arrivò a Natale Papini, che si scelse come collaboratore un noto ladruncolo di Firenze. I due, forniti di documenti falsi, arrivarono sulle Rive della Limmat.
I resoconti sul Colpo Zurigo, come tutti quelli riguardanti affari segreti, sono infarciti di notizie fantasiose e di particolari inventati, che riguardano soprattutto il reale svolgimento dell’Operazione.
Operazione compiuta con successo
Una versione vuole che sia stato il doppiogiochista Livio Bini a fornire i calchi delle quindici chiavi delle altrettante porte degli uffici della Bahnhofstrasse. Un’altra accredita, invece, l’azione di un nostro agente segreto che, dopo esser divenuto amante di una donna portaordini per conto dell’Evidenzbüro da Zurigo a Roma, era riuscito addirittura a farsi assumere dallo stesso Mayer.
Il segreto sui calchi delle chiavi è ancora un mistero e tale, forse, resterà per sempre. La tesi più probabile è quella esposta da Eddy Bauer nella sua Storia dello Spionaggio, in 8 volumi, edito in Italia dalla De Agostini (1971-1973) con la prefazione di Enzo Biagi, che non esclude il tradimento per denaro di uno stesso collaboratore del Mayer, che, oltre ai calchi, avrebbe fornito anche la planimetria dei locali con l’esatta ubicazione della cassaforte. Anche questa tesi non è stata mai provata. Scrive, infatti, il Bauer: «Il doppiogiochista, sia esso l’amante della donna portaordini del Mayer o l’avv. Bini, non ha agito da solo. Forse ha allargato la sua influenza, coinvolgendo un agente di Vienna...».
Con i calchi avuti, Remigio Bronzin fabbricò, intanto, le chiavi, facendone una speciale che, a operazione finita, si sarebbe dovuta rompere dentro la serratura del portone principale, bloccando l’accesso agli uffici per ore, fino all’arrivo di un fabbro. Dopo le ultime consultazioni si decise di agire la notte del 22 febbraio 1917. Era un giovedì grasso e in tutta la città impazzava il Carnevale con veglioni e cortei di maschere. A notte fonda, i ‘magnifici quattro’ (Tanzini, Papini, Bronzin e Bini) si avviarono carichi di tutto l’armamentario necessario allo scasso, compresi la fiamma ossidrica per aprire la cassaforte e i teloni di spesso panno blu per oscurare le finestre. Entrarono sicuri e, una dopo l’altra, aprirono le sedici porte senza incontrare ostacoli. Di porte ce n’era, però, una diciassettesima, chiusa: quella della stanza del Mayer, che l’informatore aveva sempre visto aperta. Bisognava desistere, riprendere armi e bagagli e tornare indietro e aspettare che la talpa interna fornisse il calco anche di quella serratura.
Qualche notte dopo, si fece il secondo tentativo, ostacolato da un grosso cane lupo all’interno del giardino, ma bastò un pezzo di carne al cloroformio per zittirlo. Le 17 porte furono aperte con facilità e Papini si mise all’opera per aprire la cassaforte, che resisteva all’attacco della fiamma ossidrica. Quando la parete esterna fu perforata, ne fuoruscì un getto di gas venefico che investì in pieno viso Papini, invadendo l’ufficio. Tanzini spense subito le luci e Bronzin aprì le finestre per cambiare l’aria. Papini, dopo aver bevuto qualche sorsata d’acqua da un vaso di fiori posto sulla scrivania del Mayer, si coprì il naso e la bocca con un panno bagnato con quella stessa acqua, per placare l’irritazione della gola, e si rimise all’opera. All’una passata, dopo 4 ore di duro lavoro, l’obiettivo era raggiunto. Con tre pesanti valigie piene zeppe, Tanzini e Papini si avviarono verso la Stazione, dove furono raggiunti da Bonnes e Bronzin, e tutti e quattro presero il primo treno per Berna, mentre l’avvocato Bini aveva fatto ritorno nella sua casa di Zurigo. Tutto era filato liscio. Alle otto di mattina, le valigie furono consegnate ad Aloisi, che aspettava trepidante nella sede della Legazione italiana a Berna.
Sulla data dell’operazione finale le fonti discordano: per alcuni è più plausibile che si sia svolta nella notte tra il 27 e 28 febbraio (il telegramma di Aloisi a Roma è del 28 mattina!). Tra i documenti c’erano anche i piani dei prossimi attentati da compiere in Italia. Per qualche giorno dopo era programmato il sabotaggio della corazzata Giulio Cesare, ancorata a La Spezia, che poté, pertanto, essere evitato. C’erano codici e cifrari segreti; le liste di chi tirava le fila in Italia; i nomi dei sabotatori.
Caporetto: la vergognosa disfatta
Tra i traditori c’erano anche nomi di alto rilievo del mondo politico e militare, di quello industriale e di alti prelati. Si scoprì anche che le bombe a orologeria sulla Benedetto Brin erano state piazzate dai marinai italiani Guglielmo Bartolini, Giorgio Carpi e Achille Moschin. Furono in pochi a pagare. Bartolini fu condannato all’ergastolo. Carpi e Moschin a morte, con pena tramutata all’ergastolo nel 1919 e poi ridotta a 20 anni nel 1933 e infine liberati rispettivamente nel 1937 e nel 1942. I nomi di tutti gli altri si dileguarono nel nulla.
Alcuni documenti svanirono misteriosamente dagli atti processuali; sparirono dai cassetti segreti degli alti comandi militari. Altri furono resi inutilizzabili sistematicamente per la mutilazione di importanti pagine. Ai processi tenutisi, nel 1920, le prove schiaccianti divennero solo ombre di sospetto. Rimasero, allora, sconosciuti gli organizzatori di tutti i sabotaggi, i cui nomi erano scritti a chiare lettere nelle carte di Mayer. Le inchieste della magistratura e quelle di una commissione parlamentare non portarono a nessun risultato. Era stato tutto misteriosamente insabbiato. Il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati per mancanza di prove.
La giustizia italiana doveva, tuttavia, fare il suo corso e mostrare tutta la sua inflessibilità. Non potendo prendersela con chi aveva causato tanti disastri e tanti morti e portato la Nazione sull’orlo della sconfitta militare, se la prendeva con l’avvocato Livio Bini, al quale era stata promessa l’immunità in cambio della sua collaborazione. Appena tornato in Italia, fu arrestato per scontare la vecchia condanna per bancarotta senza nessuno sconto. Oltre al Bini, l’altro scornato di tutta l’operazione fu Natale Papini, lo scassinatore livornese, al quale era stato promesso tutto il contenuto della cassaforte che non fossero i documenti segreti. Delle 650 sterline oro, degli 875.000 fr.sv., della collezione di francobolli rarissimi e dei gioielli, nulla gli fu dato, se non un acconto di 30.000 lire con la promessa di una più sontuosa ricompensa, che non giunse mai. Con quella somma aprì un’officina. In vecchiaia, a causa di un incidente e di una grave malattia, finì nella miseria. Nel 1954, 37 anni dopo il Colpo di Zurigo, la legge che riconosceva a Papini una modesta pensione sociale, per l’alto contributo dato alla Patria, fu votata dal Parlamento italiano, ma fu tutto inutile, perché egli morì prima di riscuotere il primo assegno!
Sgominata la rete dei sabotatori, nella prima metà del 1917, l’Austria, impegnata ancora anche contro il fronte russo, era molto debole su quello alpino. Diversi disertori dell’Impero austroungarico si consegnarono ai comandi italiani, portando con loro piani dettagliati delle postazioni nemiche. Alcuni comandanti dell’esercito nemico si dichiaravano pronti a passare nel campo opposto. Ma, come testimonia il generale Cesare Pettorelli Lalatta, in L’occasione perduta. Carzano 1917, non successe nulla. Gli alti comandi militari italiani, con il generale Luigi Cadorna in testa, continuarono nella guerra di posizione e nella difesa delle trincee fino alla disfatta di Caporetto. Dopo, invece di chiedersi i veri motivi di quella dura sconfitta, quegli stessi comandi militari si mostrarono spietati contro quanti erano stati costretti a fuggire davanti ai furiosi attacchi delle armate austro-tedesche. Oltre 300 mila di nostri soldati furono processati. Per alcuni di loro non si conobbe pietà: 750 soldati furono fucilati al termine di brevi processi, 350 passati per la decimazione o giustiziati direttamente dai superiori. Tanti, molti altri furono uccisi durante i combattimenti da «fuoco amico» per impedire che arretrassero dalle posizioni loro assegnate. Tra i condannati a morte in contumacia ci furono anche oltre 3 mila giovani emigranti italiani renitenti alla leva militare.