A colloquio con il prof. Donato Sperduto

Saba, Levi e la poesia onesta

«Ai poeti resta da fare la poesia onesta», così scrisse il poeta Umberto Saba in Quello che resta da fare ai poeti (1911). E Carlo Levi, che lo conobbe durante la Seconda Guerra mondiale, lo definì un grande poeta. Usando il genere discorsivo-autobiografico, Saba intese difendere il principio dell’aderenza della parola e della cosa. Nel suo libro Armonie lontane (Aracne ed.), Donato Sperduto, docente al Liceo di Sursee e presidente dell’ASPI (Associazione svizzera dei professori d’italiano), si è occupato di questa interessante tematica ed in proposito ha risposto ad alcune domande.


Come mai Saba distinse la poesia onesta da quella disonesta?

Saba oppose il Manzoni poeta a Gabriele d’Annunzio e parlò dell’onestà dell’uno e della «nessuna onestà» dell’altro. Infatti, non reputava d’Annunzio fedele al proprio mondo interiore in quanto «l’artificio del d’Annunzio non è solo formale ma anche sostanziale, egli si esagera o addirittura si finge passioni ed ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento: e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso». Saba difese la poesia onesta in quanto espressione della fedeltà a sé stessi. E l’onestà, i poeti devono averla così verso loro stessi come verso il lettore.

La posizione di Carlo Levi fu in linea con quella di Saba?

Levi condivise l’analisi sabiana e sosteneva che arte e coscienza morale non dovessero essere separate, bensì amiche e congiunte. Carlo Levi fu un assertore di un umanesimo comprendente un impegno etico in dialogo con l’altro. Scrisse centinaia di poesie, raccolte ora nei volumi Poesie (Donzelli ed.) e Versi (Wip ed.). Nella Canzonetta del 1972, Levi espresse il senso del suo poetare: «Io canto per amore / tutto quello che penso / tutto il bene ed il male / la speranza dei delusi / la presenza degli esclusi / ogni cosa reale / l’emigrante senza terra / il contadino senza terra / l’operario senza terra / il giovane senza terra / la terra senza terra […]. Quello che è libertà / io canto per amore».

Secondo Lei, Levi si limitò all’opposizione tra poesia onesta e disonesta?
Nel suo romanzo L’Orologio (1950), Levi sviluppò il suo proclama dell’impegno etico come anche dell’unità di arte e coscienza morale. E lo fece sviluppando anche la teoria dei Contadini e dei Luigini. Contadini (con la C maiuscola) sono tutti coloro che producono, che fanno le cose e le amano. Invece, Luigini sono le persone che fanno lavorare gli altri al loro posto: i Luigini fingono retoricamente di ingegnarsi per gli altri, mentre in realtà pensano al proprio tornaconto e a quello della cricca. In breve, i Luigini sono i parassiti che hanno bisogno di Contadini per vivere, per succhiarli e nutrirsene. In fondo, il Contadino corrisponde al poeta onesto ed il Luigino al poeta disonesto di sabiana memoria.

Per finire, può fare un esempio di un tipico Luigino contemporaneo?
Basta immaginarsi un dirigente, la cui giornata lavorativa tipica potrebbe essere descritta nel seguente modo: la mattina entra nel suo ufficio, alza le tapparelle, si siede alla scrivania ed incrocia le braccia (come se indossasse la camicia di forza…). Alla fine di una giornata passata largamente a muovere retoricamente le mandibole, abbassa le tapparelle e rincasa. Possano la libertà e la consapevolezza di un Contadino diventare la libertà e la consapevolezza di un Luigino.

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