Le donne protagoniste
di Giovanni Sorge
Parlare di diritti umani, oggi, fa riflettere su quanto spesso i principi la statuiti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 10 dicembre 1948 vengano calpestati in tanti, troppi paesi. Costringe a misurarsi con gli aspetti più disumani della natura umana, ma permette anche di conoscere la forza e l’abnegazione di uomini e donne che, nei fatti, perseguono quanto afferma il Libro dei Mutamenti o I Ching: “il miglior modo di combattere il male è proseguire risoluti nel bene“.
Sono state certamente le donne, le protagoniste del recente Human Rights Film Festival di Zurigo (7-11 dicembre): un grande omaggio alla donna, al suo coraggio e alla capacità di sognare. Non a caso il trailer ufficiale di questa seconda edizione zurighese del festival era una scena di Divines, il primo, straordinario lungometraggio della franco-marocchina Houda Benyamina, che racconta di due adolescenti – e straordinarie interpreti – alle prese con la ricerca di un’identità nella pesante, violenta realtà di una banlieu parigina.
“Bisogna sognare, e sognare con forza, per mettere a fuoco, chiarire ciò che é evanescente e modificare la percezione delle cose. Può sembrare naif pensare di cambiare il mondo con film e dibattiti, essi tuttavia ci aiutano ad immergerci in altre realtà e acuiscono il nostro sguardo”. Ne é convinta Sasha Bleuler, direttrice del festival. Un festival che cerca, “per quanto possibile, di contrastare le avversità e le bruttezze del mondo attraverso la forza del cinema”. Circa 3000 spettatori hanno assistito alle venti proiezoni – tra fiction e documentari – provenienti dalla Siria a Israele, dall’Indoesia al Sudamerica, senza dimenticare Cina, Corea del Nord, ma anche dall’Europa. Opere di denuncia, riflessione, sensibilizzazione, spesso frutto di anni e anni di lavoro. E a pressoché ogni pellicola sono seguite tavole rotonde e dibattiti con la partecipazione di esperti e operatori (da Human Rights Watch a Medici Senza frontere e molti altri). Per ragioni di spazio mi limito a segnalare tre lavori estremamente significativi.
Jerusalem dell’israelo-statunitense Danae Elon é un documentario atipico. É la sua storia, quella di una donna nata a Gerusalemme e cresciuta a New York che decide di tornare ‘alle origini’ con la famiglia, tre bambini e il marito. È alla ricerca delle sue radici, vuole ritrovare un’identità, forse anche riallacciarsi al padre, dopo la sua scomparsa, lo scrittore Amos Elon. E magari scavare nei di lui silenzi sull’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Eppure, creare una nuova vita in Israele risulta tutt’altro che facile quando non si voglia accettare una certa intransigenza politico-religiosa. Il film descrive questa fase di trasformazione, in una sorta di joyciano flusso di coscienza, attraverso una telecamera che sonda e scava nelle pieghe del quotidiano, facendosi strumento di investigazione e scavo nei territori psichici, più che geografici, della propria famiglia. “Per me – ha dichiarato la regista – questo non é un film politico, sono però convinta che la politica passi attraverso la dimensione personale”. L’innocenza dei figli che crescono, avulsa dalle partigianerie della vita adulta, li rende i veri protagonisti della storia. Perché forse proprio in loro Elon ha riposto le speranze di arrivare a conciliarsi con la propria ricerca, di un’identità consapevole delle proprie origini, ma altresì basata sul rispetto e la convivenza fra Arabi e Israliani. Una storia delicate e forte, ma dal finale amaro.
Il documentario Jihad, a Story of the Others della norvegese Deeya Khan – visibile anche su www.itv.com –scava nelle pieghe dell’altro par excellence che ormai domina l’immaginario collettivo: il “terrorista islamico”. E lo fa attraverso una sequela di interviste raccolte, nel corso di due anni, soprattutto in Gran Bretagna, con fondamentalisti, ex terroristi, ma anche madri e parenti delle vittime. L’idea di fondo è capire che cosa spinga giovani nati e cresciuti in Europa ad abbracciare un’ideologia di morte. Ne deriva un quadro variegato ed inquietante: c’è chi – uomini, ma anche donne – scappa da situazioni insostenibili o prive di prospettiva, chi genuinamente crede a una sorta di utopia rigeneratrice o si lascia sedurre da modelli di eroismo o scenari apocalittici; e chi, votatosi all’idea di combattere per una giusta causa, finisce per cozzare con tutt’altra realtà e realizza, spesso ma non sempre, che imbracciare l’odio con l’aiuto di Dio e del kalashinkov non basta a dare una risposta al vuoto esistenziale. Emerge spesso una povertà emotiva e immaginativa agghiacciante (a conferma dell’attualità de La banalità del male della grande Hannah Arendt): d’altronde mica bisogna essere dei mostri, anche se poi, nei fatti, lo si diventa – né bisogna esser cresciuti con le armi come compagni di gioco. Ed è sul bisogno di modelli, di eroismo e, in ultima analisi, di senso che spesso, purtroppo, l’Isis fa presa, calamitando molti di coloro che – a prescindere da età, sesso o etnia – non hanno avuto possibilità di crearsi uno spazio, un progetto e sono bramosi di trovare qualcosa o qualcuno disposto ad occuparsi incondizionatamente di loro, tutti insieme contro il nemico comune. Questo documentario lo mostra molto bene, tuttavia mantenendo una sospensione del giudizio. Kahn non lo ha concepito, dice, come un film sull’Islam, “ma sulla natura umana, per capire che cosa porti a rendere accettabile ai giovani questo messaggio di violenza. E alla fine ho capito che la motivazione non è diversa da quella che porta i giovani a diventare skinheads, o membri di una gang”.
Va infine menzionato What tomorrow brings dell’americana Beth Murphy, uno dei film più toccanti del festival. In Afganistan, ove l’istruzione è facoltativa e l’educazione femminile largamente osteggata, esiste dal 2008 il Zabuli Education Center, una scuola privata femminile a 30 miglia da Kabul finanziata da donatori statunitensi, ove studiano 550 studentesse tra i 4 e i 22 anni. Murphy per anni ha raccolto storie, seguito diversi momenti, è andata a trovare insegnanti ed alunne, descrivendo un’istituzione che é modello di civiltà ee, al contempo, di coraggio: perché gestire una scuola femminile significa fronteggiare la continua l’ostilità di larga parte della popolazione, conquistare il rispetto la fiducia in un mondo in cui il solo fatto di insegnare è un atto rivoluzionario. In una scena, semplice quanto agghiacciante, vediamo Razia Jan, la direttrice e fondatrice dell’istituto, compiere un atto quotidiano. Quale? Testare l’acqua prima dell’arrivo delle studentesse: “perché se è stata avvelenata, io sono una sola persona. Ma se si tratta di 400 bambine we have a problem”. Razia Jan ricorda come prima della salita al potere dei talebani in Afganistan, nessuno parlava di burka e altre simili ingerenze radicaliste nella vita civile. Purtroppo, lascia capire, la situazione sta peggiorando: l’ostilità di certe comunità locali, gli episodi di intolleranza, addirittura gli sfregi con l’acido a ragazze semplicemente colpevoli di voler studiare. Eppure il documentario di Beth Murphy ha il grande pregio di esprimere ottimismo, se non altro aattarverso le figure della direttrice, delle insegnanti, e di molte delle studentesse. Vi è la storia di una ragazza destinata, ancora minorenne, a un matrimonio con un uomo che potrebbe essere suo nonno, scompare da scuola per sei mesi: e quando ritorna, lo fa da vincitrice: perché è riuscita o far accettare alla famiglia della sua volontà di studiare. M’è capitato di vedere pochi lavori come questo capaci di intercettare, con una freschezza e al contempo discrezione straordinarie, senza infiorettare nulla ma semplicemente descrivendo e raccontando, quanto questa scuola, ma anche la scuola in sé come istituzione sia luogo di civiltà e valorizzazione dell’individuo.
In chiusura segnalo che il 10 dicembre è stato fondato a Zurigo il Mercurius Prize, un premio cinematografico dedicato a film di eccellenza nell’ambito della psicologia junghiana e dei diritti umani (http://mercuriusprize.com/).
Didascalia:
- Una scena di Divines, è stata utilizzata per il trailer ufficiale della seconda edizione zurighese del festival