Chiusa a Zurigo la 19a edizione del Pink Apple Film Festival

Forse non tutti conoscono il Pink Apple Film Festival, un festival dedicato a tematiche LGBT (tematiche associate all'omosessualità, alla bisessualità e alla transessualità) che quest’anno (dal 27.4 al 5.5) è giunto alla sua diciannovesima edizione.

Molte delle pellicole presentate nella kermesse simboleggiata dalla mela rosa hanno affrontato temi che vanno al di là del variegato e variopinto movimento omosessuale. Peraltro, come ha osservato Roland Loosli, codirettore del festival, “l’edizione di quest’anno ha forse visto il maggior numero di pellicole italiane dall’inizio del festival stesso”.

Inizio che risale al 1997, quando un gruppo di cinefili di Frauenfeld – nel canton Turgovia, detto anche, per l’appunto, Apfelkanton – diedero vita a un festival per “promuovere l’emancipazione e la accettazione omosessuale”; orientato dunque a valorizzare opere capaci di far riflettere sulle relazioni che non rientrano negli schemi della cosiddetta normalità eterosessuale. Dalla prima edizione, che ebbe luogo a Frauenfeld nel 1998, il Pink Apple ne ha fatta di strada, ampliandosi fino ad approdare, nel 2000, a Zurigo con sette prime visioni. Nel 2003 fece il suo debutto ufficiale con circa cinquanta proiezioni. Frattanto il festival è diventato il più importante nel suo genere in Svizzera, ospita opere da tutto il mondo cui si affiancano workshop, dibattiti e mostre – come è successo, ad esempio, nel 2013, con la presenza dell’attivista, regista e fotografa sudafricana Zanele Muholi la cui opera s’incentra sulla natura e la bellezza femminile.


Un progetto indipendente

Basato su un progetto indipendente e una struttura consociativa, e premiato da una crescente partecipazione di pubblico (nel 2015 ha raggiunto la quota di 9250 visitatori) il Pink Apple mantiene fede alla valorizzazione di lavori capaci di guardare con occhio anche critico al mondo LGBT, favorendo un confronto fra diversi modelli socioculturali: ad esempio, dedicando quest’anno una sezione cortometraggi al tema dell’omosessualità nel mondo musulmano, con diverse opere di valore.

Così, il dibattito incoraggiato dal Pink Apple va al di là delle sempreverdi rappresentazioni del mondo gay esclusivamente improntate a lustrini zeppe e paillettes, esibizioni di tricipiti e isterie di vario genere. Che poi finiscono per fare un cattivo servizio al senso delle rivendicazioni sociali, civili e culturali della comunità LGBT, ed abbassando il livello del dibattito, peraltro spesso tendente al becero, come si è potuto constatare in Italia in relazione alla recente approvazione della legge Cirinnà. Per fortuna, vien da dire, che abbiamo un Umberto Galimberti, fra i pochissimi a ricordare con chiarezza che la genitorialità, anzitutto, pertiene a chi cresce i figli, non solo a chi li genera (ponendosi così in linea con le considerazioni dello psicologo lacaniano Massimo Recalcati ad es. in Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca iperrmoderna, Cortina 2011).


Un pudico, gentile ma lontanissimo omaggio

Ben venga allora, in questo senso, il film dedicato all’amore saffico di Maria Sole Tognazzi, Io e lei (2015). Un film che ha il non trascurabile merito di saper raccontare la ‘normalità’ della storia di Federica e Marina, una coppia che convive da anni: la prima – Sabrina Ferilli – è un’ex attrice che accetta con orgoglio la propria condizione, mentre la seconda – Margherita Buy – architetto, già sposata e con un figlio, vive il suo nuovo rapporto in modo più intimistico e travagliato, evitando il cosiddetto ‘outing’ e – intorno a ciò ruota poi gran parte del film - finendo preda di una crisi per via di un ritorno di fiamma (maschile). Raccontando così una relazione lesbica senza cadere in vieti stereotipi e derive macchiettistiche, ma tratteggiando la prosaica come pure, si sa, anche impegnativa ‘normalità’ del quotidiano, le due protagoniste descrivono, nelle loro differenze ancorché all’interno di un contesto altoborghese, diversi aspetti socioculturali con verve ed ironia.

Tuttavia il limite maggiore del film – definito dalla regista “un pudico, gentile ma lontanissimo omaggio” a Il vizietto di Edouard Molinaro con la partecipazione del padre, il grande Ugo Tognazzi, e Michel Serrault – è forse proprio la sua eccessiva pudicizia: in altri termini, nell’asfittica rappresentazione dell’affettività. Il che – beninteso - tange ma non coincide, con la questione del(la rappresentazione del) sesso, peraltro praticamente inesistente nell’intero film, ad eccezione di un acclamatissimo – ma una tantum! – bacio saffico finale. Questa carenza a mio parere investe la verosimiglianza e persino la credibilità della storia stessa. In altre parole: certamente la pellicola evita eccessi e stereotipi, e riesce a mostrare il prosaico quotidiano altalenarsi di una coppia ormai rodata, di due donne dalla spiccata e convincente presenza scenica.

Tuttavia, in luogo della tendenza ad indugiare in una certa logorrea problematizzante sarebbe stato opportuno qualche moto gestuale per confermare la normalità di cui sopra: un abbraccio, un’effusione, un segno di affetto o, al limite, un momento di relax (quantomeno verbale!) – insomma: maggiore prossimità fisica.
Sicché, per eluderne uno fracassone e panettaro, il film resta un po’ algido, e persino forzato, anche nell’evitare di addentrarsi oltre la superficie delle ragioni che spingono Margherita nelle braccia del vecchio amore.

Concordo quindi col parere di Alessandra Levantesi Kezich, la quale riconosce al film il merito di aver dato a questa relazione “un’encomiabile chiave di normalità” ma conclude dicendo, delle “peraltro accattivanti Ferilli e Buy, amiche può essere, ma che siano amanti non ci si crede neppure per un attimo”.


Intima ‘normalità’

Rappresenta invece ottimamente la cosiddetta ‘normalità’ di una vasta rosa di relazioni omosessuali un film-documentario molto intimo quanto atipico (tanto da non aver trovato ancora distribuzione in Italia) che costituisce la terza regia di Mattia Colombo: Voglio dormire con te.

La ‘normalità’ qui non è solo data dal fatto che i personaggi siano invero amici del regista, ma anche dalla straordinaria capacità di cogliere momenti quotidiani di estrema spontaneità ed intensità, quasi che la telecamera non vi fosse, in una struttura paratattica che muove a partire dalla personalissima questione di cui ‘soffre’ – per sua stessa ammissione – il regista.

Come metter fine a una storia che, dentro di lui, non ha fine, anche se il suo partner se n’è andato da 4 mesi? Lo dice sin dall’inizio, Mattia Colombo, accingendosi a un viaggio nelle storie degli altri, dei suoi amici, nelle coppie dei suoi amici, ogni coppia con la propria diversità e unicità: non sbandierata, ma raccontata con una delicatezza e levità che molto deve sia all’affiatamento delle amicizie, sia a un fine lavoro di montaggio, peraltro impreziosito da una colonna sonora discreta ed elegante. Ne è risultata un’opera che, nella sua tensione a indagare la diversità e l’umanità di dinamiche assai differenti, ha il grande merito dell’onestà, espressa quasi sottovoce e che in tal modo può toccare corde profonde.


Machismo e sessismo

Segnalo inoltre Non accettare i sogni dagli sconosciuti di Roberto Cuzzillo (2015). Questo terzo lungometraggio del regista e produttore torinese affronta, attraverso una storia d’amore ambientata nella Russia ai tempi – attuali – di Putin e molto ben interpretata tra nuotatore italiano e un interprete russo, la questione del machismo e del sessismo.

Più che opera di denuncia politica ne risulta una storia d’amore (assai) romantica: il film, che probabilmente mira ad essere entrambe, lascia però sullo sfondo – forse volutamente - il tema omofobo optando per declinarlo nella dimensione intimistica di una storia irrealizzabile. La scena del pestaggio, infatti, giunge sui due protagonisti come un fulmine a ciel sereno e anticipa il distacco successivo declinandosi o diluendosi in termini e in un contesto che rimanda quasi a sfumature fiabesche, inneggiando a un amore oltre il tempo e i confini, e quindi poco dicendo delle vigenti condizioni sociale degli omosessuali in Russia.

Particolare risulta inoltre la scelta di scandire la storia con inserti di filmati d’epoca – su Maciste quale supereroe ‘macho’ salvatore di soavi e fragili fanciulle - che (secondo l’autore) ammiccherebbero alle pose ‘mache’ di Putin. Non sempre queste risultano direttamente connesse al messaggio, ma impreziosiscono il film di rimandi allusivi più poetici che politici.

Cuzzillo sta lavorando a un film dedicato a una famiglia dell’Aquila; e che i temi da lui affrontati continuino ad essere indigesti per il palato medio italiano, o quantomeno dei distributori italiani, lo dice il fatto che i suoi due lavori precedenti (Senza fine e Camminando verso, quest’ultimo dedicato all’amore omosessuale al femminile) abbiano trovato distribuzione in Europa, negli Stati Uniti, in Brasile e persino a Taiwan, ma non nel Belpaese.


Bullismo e diversità


Molto apprezzato è stato infine il film Un bacio di Ivan Cotroneo, una storia – nata da un libro firmato dal regista stesso - dedicata al tema del bullismo ed elle problematiche adolescenziali connesse al riconoscimento della cosiddetta diversità, grazie alla convincente recitazione dei tre protagonisti, studenti in una scuola friulana e confrontati con pregiudizi e prevenzioni dei più.

A metà tra fiaba e tragedia, il film presenta anche figure genitoriali ben definite, con riflessioni realistiche e talora profonde – un solo esempio, quella della madre di Blu, una ragazza scontrosa e alla ricerca di un proprio equilibrio, che scrive di essere impressionata dalla “sua apatia, la costante mancanza di qualunque prospettiva futura. Cosa faranno delle loro vite da grandi? Davvero non sono riuscita a passare niente a mia figlia? Nessuno ei miei sogni? Mia figlia non sogna. Si lascia scivolare. Io mi chiedo: si può guardare tua figlia pensando contemporaneamente che sia il tuo orgoglio e il tuo fallimento?”.

Insomma il film può piacere e forse anche convincere, presenta però anche il rischio di risultare molto tagliato – anche per via dell’uso persino eccessivo di tecniche narrative più da social network che cinematografiche e sui monotoni autoincensamenti di uno dei protagonisti – sul target dell’età che racconta, eccedendo in passaggi tediosi o persino indigesti, un po’ come quando, passati i vent’anni o poco più, ci si trovasse a (ri)leggere qualche libro a caso di Andrea De Carlo.
In ciò, il film non raggiunge ad esempio il livello, invece straordinario, del film – di cui già si è detto nel nr. della rivista del Dicembre 2015 dedicato allo Zurcher Film Festival – di Niklaus Hilber Amateur Teens.

Tra le molte pellicole presentate quest’anno va certamente segnalato Los Amantes de Caracas, di Lorenzo Vigas: storia di una relazione atipica fra un odontoiatra benestante di una certa età e un ragazzo di strada, un film eccellentemente interpretato che esprime un’amara riflessione sull’immutabilità e l’incomunicabilità delle categorie sociali.

Va infine ricordato che quest’anno l’onorificenza maggiore è andata a Léa Pool (autrice del recente La passion d’Augustine). Pool è stata onorata per i suoi meriti di pioniera, avendo la regista canadese scelto di trattare storie di amori omosessuali, perlopiù femminili, spesso sul difficile crinale della scoperta adolescenziale e postadolescenziale della propria identità esistenziale e (quindi) affettiva, ponendoli quali forme d’amore naturale, oltre facili cliché e tendenze a un compiaciuto vittimismo, ispirandosi a modelli cinematografici e letterari del livello di Marguerite Duras, Jean-Luc Godard e Andrei Tarkowski. La popolarità la raggiunse con il suo primo lungometraggio Anne Trister, ma fu in particolare con Lost and Delirious che la forza narrativa ed espressiva assurse al rango di classico nel suo genere; di più, questa storia di Pauline e Victoria, due educande che vivono – considerandola naturale – una relazione affettiva che le porta a subire l’ostilità e gli stereotipi di una mentalità provinciale e conservativa e che ha certamente contributo a incoraggiare molte ragazze e donne nel superare e circoscrivere problemi nati da modelli culturali difficili a morire.

di Giovanni Sorge

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