di Vittoria Cesari Lusso

Una star della moderna psicoanalisi, Massimo Recalcati, sostiene che l’occidente capitalista ha prodotto una nuova forma di schiavitù: l’essere umano senza desideri, condannato a procurarsi un qualche godimento unicamente attraverso il consumo compulsivo e perennemente insoddisfatto.
Viene allora da domandarsi se il fenomeno sia veramente totalmente nuovo o se esso costituisca la manifestazione moderna di una vecchia modalità di funzionamento di cui siamo portatori noi umani.
Già nell’antica Grecia un gigante della filosofia come Platone spiegava che è molto facile bruciare dal desiderio per qualcosa che non si possiede ancora e immaginare quanto saremmo felici ad averlo. Molto più difficile è continuare ad apprezzare ciò che ci è già stato donato in modo da gustare a lungo la soddisfazione del desiderio realizzato.

In tempi più recenti, Proust pensava che siamo votati alla perenne insoddisfazione.
Nel suo romanzo Alla ricerca del tempo perduto, il protagonista soffre atrocemente quando Albertine non è presente. Ma quando lei arriva, si annoia e spera che se ne vada al più presto. La passione amorosa si nutre dunque di ostacoli, di assenze, di incontri fugaci. Dal momento in cui i due innamorati trascorrono assieme le notti, le mattinate, i pomeriggi e le sere, lo spazio del desiderio si riduce.
La filosofa Michela Marzano sostiene che ci innamoriamo poiché lui o lei portano in sé la promessa di qualcosa che aspettiamo da sempre, qualcosa che abbiamo perso e che desideriamo ardentemente ritrovare. Salvo poi…
Cosa cambia se passiamo dal desiderio amoroso a quello del possesso di determinati oggetti? Anche qui si potrebbe dire come Bernard Shaw che ci sono due catastrofi a proposito dei desideri: la prima è quando questi non sono soddisfatti; la seconda è quando lo sono.

Nella moderna società dei consumi prevale l’aspirazione al tutto, subito e con facilità. Il nostro rapporto alle cose desiderate diventa simile a quello che hanno i bambini viziati nei confronti dei regali promessi. Prima di Natale o del compleanno il tempo dell’attesa sembra loro eterno. Il desiderio si espande. Ripetono le loro richieste, sono impazienti e fanno capire quanto li renderebbe infelici non avere questo o quello. Poi il regalo arriva. Anzi, spesso una montagna di regali.
Al bambino bastano in seguito poche ore, gli basta arrivare al pomeriggio del 25 dicembre o alla sera della festa di compleanno per sentirsi già un po’ annoiato. Non sa bene perché. Non ha ancora letto filosofi come Platone o scrittori come Proust.
Per non parlare poi di quei genitori, di quei nonni e zii che non aspettano neanche le richieste dei pargoli e cercano di indovinare e anticipare tutti i loro presunti desideri inondandoli di regali ancor prima che questi siano richiesti. L’intenzione di “non far mancare loro niente” priva i figli e i nipoti della capacità di aspettare e annulla il fascino dell’oggetto donato. La linfa vitale dell’attesa e la gioia di vivere il piacere della conquista vengono di fatto prosciugate.

Cosa ci impedisce di diventare succubi del meccanismo del bambino viziato? Investire il desiderio in traguardi che richiedono impegno e perseveranza. Se non basta, due altri filosofi ci vengono in aiuto. Penso a Kant quando dice che per essere felici occorre aver solo in parte ciò che si desidera.
Penso a Spinoza che considera la felicità come la capacità di amare ciò che NON ci manca. Ciò che abbiamo è dunque l’elefante invisibile di cui dobbiamo imparare a gioire. Non si tratta quindi, ad esempio, di aver voglia di mangiare solo quando non abbiamo cibo a disposizione, ma al contrario di coltivare la saggezza di gustare con piacere il buon cibo di cui godiamo ogni giorno. In campo amoroso ciò significa pensare all’essere amato dicendosi: sono felice perché tu sei presente. Anche se ho bisogno di momenti di lontananza per gustare tale felicità.
Un tale approccio filosofico non compie miracoli, ma può farci vivere meglio.