di Vittoria Cesari Lusso
Recentemente ho ricevuto una telefonata da parte di un padre molto preoccupato. Il figlio minore, ventiquattrenne iscritto all’università, colleziona un insuccesso dopo l’altro. “Sa, professoressa – mi dice – è intelligente e affettuoso, ma non si impegna. Invece di studiare e prepararsi agli esami perde molto tempo, in particolare con video giochi. Circa un anno fa abbiamo acquistato una nuova casa e gli abbiamo arredato una spaziosa camera con bagno nella mansarda in modo che si senta più indipendente. La relazione con lui è buona tutto sommato, ma non riusciamo a spingerlo a lavorare più seriamente per il suo avvenire. Mia moglie ed io cerchiamo di fare del nostro meglio per comunicare e incoraggiarlo a studiare, ma lui sembra impermeabile. Fino al diploma di maturità non ha avuto problemi, poiché l’intelligenza gli bastava per andare avanti senza faticare troppo. Credo faccia parte di quei ragazzi ad alto potenziale intellettivo che durante l’infanzia e l’adolescenza non sono stati stimolati adeguatamente a casa e a scuola… Adesso noi genitori ci domandiamo se non dovrebbe farsi seguire da una psicologa per curare la sua tendenza a sempre rinviare, rinviare… Ma lui non ne vuole sapere. Vorrei venire da lei per vedere come posso convincerlo…”
Dopo aver parlato a più riprese con questo padre per conoscere meglio la situazione e le dinamiche interattive familiari, mi si è accesa una sorta di lampadina: e se avesse ragione il figlio a non volersi far “curare” da una psicologa? E se il giovane avesse “unicamente bisogno” di un padre che faccia il padre, ovvero di una figura autorevole e adeguatamente severa che gli metta dei chiari limiti educativi. Il padre in questione sembra ora aver aderito a tale diversa lettura del problema. Vedremo nei mesi a venire se tale opzione darà i frutti sperati.
Questo ennesimo caso di genitori inclini all’indulgenza, sempre pronti ad assumersi la colpa di non aver fatto abbastanza, sempre orientati a considerare la pigrizia dei figli come un disturbo psichico da curare, mi fa dire che stiamo assistendo a una crescente confusione tra il campo psicoterapeutico e quello educativo (un grande elefante invisibile). Ovviamente non ho nulla contro la psicologia e gli psicologi, visto che da una trentina d’anni mi dedico con passione a tale disciplina sul piano clinico, dell’insegnamento e della ricerca.
Attenzione, mi vien voglia di dire, l’idea di mal-attia sta sostituendo quella di mal-educazione! Taluni genitori e insegnanti non osano più assolvere il ruolo specifico di educatori capaci di guidare, instradare, spronare, sanzionare i giovani virgulti, ma si sentono piuttosto in dovere di etichettare rapidamente i loro comportamenti inadeguati come patologie psicologiche. Un bambino che non rispetta le regole viene così facilmente definito come perturbato e iperattivo, e pertanto scusato a priori e compatito. Un ragazzo (o ragazza, si intende!) pigro e svogliato diventa sempre più spesso nel racconto dei familiari un individuo ad alto potenziale che non è stato adeguatamente stimolato. Un adolescente normalmente ribelle viene visto come un caso clinico da curare.
Sembra insomma che sempre più adulti preferiscano oggi affidare figli e allievi alle cure di uno specialista piuttosto che investire energie nell’educarlo ponendogli i necessari limiti, insegnandogli a non considerarsi il centro del mondo, confrontandolo ai suoi doveri e non solo ai suoi sacrosanti diritti.
Ovviamente sono la prima a non negare che molte conoscenze in campo psicologico e relazionale siano di aiuto (di grande aiuto, anzi!) nella complessa missione educativa degli adulti. Ma un conto è servirsene per tentare di svolgere al meglio i compiti educativi di padre, madre, maestro, professore nelle società moderne. Un altro è pensare e agire come se le frottole, le insubordinazioni, le sciocchezze e le balordaggini dei più giovani siano disturbi da compatire e curare.