di Nico Tanzi
Due miliardi di utenti. Due ore al giorno in media trascorse sulle sue pagine. Le dimensioni di Facebook portano sempre più a chiedersi che influenza ha il fenomeno “social” sullo svolgimento della vita democratica. Per gli ottimisti: un luogo dove si può discutere ogni argomento con estrema facilità, uno strumento ideale per sviluppare il confronto fra posizioni e punti di vista diversi.
Dieci anni dopo l’ingresso di Facebook fra le piattaforme web più visitate al mondo, si può dire che le cose non sono andate esattamente così – come dimostrano le estenuanti litigate, spesso piene di volgarità e violenza verbale, che si svolgono sulle sue bacheche.
Certo, si litigava e ci si insultava anche prima di Facebook. Ma si poteva pensare, ingenuamente, che un confronto mediato dalla parola scritta sarebbe stato in qualche modo più “meditato”, meno soggetto a quegli istinti che ti spingono a prendere a sberle l’avversario, anziché cercare di comprenderlo. Perché ciò non è accaduto?
Le spiegazioni sono tante e servirebbero manuali interi di psicologia e sociologia per passarle in rassegna. Ma per capire come funziona il confronto sui social bisogna tenere presenti i cosiddetti “bias cognitivi”: quei giudizi (o pregiudizi) che pensiamo di esprimere in base a una valutazione razionale, e invece sono il risultato di una selezione (spesso inconscia) delle informazioni e dei fatti su cui ci basiamo per esprimerli. In sostanza, per decidere cosa pensiamo di una certa questione prendiamo in considerazione solo alcuni aspetti e non altri.
Su quali fatti basiamo il nostro giudizio? Anche in questo caso la risposta si trova in un bias cognitivo: il “bias di conferma”. E cioè la tendenza naturale della nostra mente a “ricercare, selezionare e interpretare informazioni in modo da porre maggiore attenzione, e quindi attribuire maggiore credibilità, a quelle che confermano le proprie convinzioni o ipotesi, e viceversa, ignorare o sminuire informazioni che le contraddicono”. Insomma: anche quando disponiamo di tutte le informazioni su una questione, non esprimeremo mai un giudizio imparziale, perché terremo in considerazione solo le informazioni che confermano ciò che già pensiamo, e ignoreremo invece quelle che smentiscono le nostre credenze.
Come influisce tutto ciò sui social? In due modi. Ognuno di noi su Facebook seleziona gli “amici” il più possibile fra quelli che la pensano come lui (o lei). Formando così un gruppo dalle caratteristiche sostanzialmente tribali. Facebook a sua volta, “intuendo” – attraverso i suoi potentissimi algoritmi – quali sono i tuoi interessi e il tuo modo di pensare, farà in modo che sulla tua bacheca appaiano, per la stragrande maggioranza, contenuti affini al modo di pensare comune a te e alla tua “tribù”. Perché le apprezzerai di più, metterai più like, condividerai di più.
Facile immaginare la conseguenza dei “bias cognitivi”, e della loro applicazione ai social, sul piano di quella che si definisce “libera formazione delle opinioni”. Una sempre maggiore polarizzazione fra punti di vista opposti e inconciliabili. E infatti sui temi “caldi” – i migranti, l’Islam, la presidenza Trump – i pochi che scrivono post e commenti “ragionevoli” e aperti al dialogo sono sommersi dai giudizi sommari e dai toni perentori e assoluti dei tanti che, per un verso o per l’altro, si ritengono nel giusto. Ritengono di esserlo, appunto, perché tutti i loro “amici” e tutti i contenuti che scorrono sulla loro bacheca confermano la validità del loro pensiero e l’errore della parte avversa. E i bias cognitivi fanno il resto.
C’è una via d’uscita? Difficile dirlo. Da parte mia mi limito ad esprimere una sconfinata ammirazione per quelle persone – poche, ma ci sono – che nelle discussioni online, di fronte all’inscalfibile inamovibilità degli interlocutori più prevenuti, continuano con enorme pazienza a mediare e argomentare, provando a instillare la scintilla del dubbio nelle rocciose certezze di haters e scatenati di ogni genere. Che la forza sia con loro, direbbe Obi-Wan Kenobi.