di Nico Tanzi
Approfitto del clima prefestivo di queste giornate per tornare con il ricordo al rito che nella mia infanzia accompagnava la sera della vigilia di Natale. Allo scoccare della mezzanotte l'intera famiglia, in processione, percorreva la casa intonando «tu scendi dalle stelle», e alla fine, giunti davanti al presepe, il «Gesù Bambino» veniva depositato nella mangiatoia.
È un ricordo accompagnato da sensazioni opposte. La «magia» di quel momento, l'unico dell'anno in cui, in un qualche modo misterioso, la dimensione del sacro si faceva quasi tangibile. Ma anche, con il passare degli anni, la stanchezza di una celebrazione che cominciava ad apparire formale e insensata agli occhi di un preadolescente poco propenso a dar credito a leggende prive di una solida base razionale...
Rievoco quel rito per accennare a una componente della nostra esistenza cui forse non siamo più abituati a fare molto caso: la dimensione simbolica. Che cosa resta infatti del Natale, del presepe, della cometa, così come di infiniti altri elementi della nostra cultura — e non solo di quella religiosa — senza quella dimensione? Poco o nulla. Certo, è possibile — restando in tema natalizio — sottoporre gli avvenimenti evangelici al filtro della verifica storica e scientifica. E scoprire che in realtà Gesù sarebbe nato da quattro a sette giorni prima di quella notte che segnò l'inizio della nostra era. Che probabilmente a guidare i re magi a Betlemme non fu una cometa, ma una congiunzione di pianeti (se ne verificarono almeno tre, in quegli anni, fra cui quella, rarissima, di Giove con Saturno). E che a «inventare» la coda della cometa, introducendola nell'iconografia successiva, fu Giotto: il quale per dipingerla, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, si ispirò alla cometa di Halley, proprio in quegli anni (all'alba del quattordicesimo secolo) apparsa alle nostre latitudini. Interessante, certo. Ma cosa ci dice, tutto questo, del senso del Natale? Ed è possibile, magari senza essere credenti in senso stretto, trovare in quella che è forse la più importante delle nostre tradizioni un senso che vada oltre la «storiella» che non riusciva più ad affascinarmi nei giorni in cui smettevo di essere un bambino?
Al di là del senso evangelico, è interessante come, secondo tradizioni non solo cristiane, la venuta del Cristo abbia segnato una sorta di salto di qualità nell'essenza profonda dell'uomo, che da quel momento in poi sarebbe stato in grado di prendere coscienza di sé, di evolversi come individuo contando sulle proprie forze (il che forse spiegherebbe perché ai nati prima di quella data l'ascesa al paradiso dei cristiani non era concessa). Insomma, con una piccola forzatura possiamo immaginare che, con l'incarnazione di Cristo, l'umanità abbia acquisito quello che oggi definiremmo l'lo.
Lo stesso presepe, se visto con lenti diverse da quelle della rappresentazione tradizionale, offre interessanti chiavi interpretative. La nascita del Redentore coincide con l'apparizione della stella, suggerendo dunque anche visivamente una «illuminazione». Illuminazione che avviene di notte, nel regno dell'inconsapevolezza, dell'ignoranza. Fra un asino, simbolo della natura bestiale, inferiore, dell'uomo, e un bue, simbolo della fecondità legata alla pulsione sessuale. Non sarebbe casuale dunque che proprio questi due animali siano raffigurati al fianco della mangiatoia. Sulla strada della consapevolezza, l'uomo è infatti chiamato a superare ciò che essi rappresentano simbolicamente, a usare le loro energie senza lasciarsi dominare dalla propria innata componente animale. Se ci riuscirà, il bue e l'asino diventeranno suoi alleati, smetteranno di tormentarlo con le loro pulsioni e lo riscalderanno con il loro alito. Vivificando, attraverso l'uomo, le forze del Cristo...
(…gli spunti che precedono, e che provengono da fonti e tradizioni diverse, potranno apparire poco ortodossi a chi segue fedelmente la lettera evangelica; ma mi sono sembrati utili per rivolgere un “pensiero natalizio” un po’ insolito alle nostre radici, anche spirituali).