LA RICETTA
Pappardelle sul Cinghiale

(È questa una ricetta tratta dalla cucina tradizionale Toscana, ricca di piatti a base di carne del cinghiale (Prosciutti, salami, primi e secondi piatti, visto l’impossibilità, oggi, di proporre il cinghiale come lo preparava l’allora patrizio romano Gavio Apicio!)

Ingredienti per 4 persone: 600 g di polpa di cinghiale, 1 l di vino rosso (Chianti, Nobile di Montepulciano, meglio ancora il Brunello di Montalcino), 5 grani di pepe nero, 3 bacche di ginepro, 1 cipolla, 1 costa di sedano, 1 ciuffo di prezzemolo, 1 carota, 2 foglie di alloro, 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva, 200 g di pomodori pelati, sale e pepe. Per la pasta : 400 g di pappardelle fresche o 250 g di pappardelle secche

Come le preparo: Faccio marinare per 12 ore la polpa di cinghiale insieme al vino rosso, le bacche di ginepro, il sedano, il prezzemolo, la carota, la cipolla e l’alloro. Trascorso il tempo della marinatura lavo il cinghiale sotto acqua corrente, lo asciugo e lo taglio a cubetti. Elimino l’alloro e le bacche di ginepro e trito o frullo tutte le verdure; metto a soffriggere in una casseruola con l’olio; quando prende colore unisco il cinghiale e rosolo per 15 minuti, quindi verso il vino della marinata man mano che il fondo di cottura asciuga. Aggiungo i pomodori tagliati a pezzetti, regolo di sale e pepe e faccio cuocere a fuoco basso per 1 ora e trenta minuti. Cuocio le pappardelle in abbondante acqua bollente, scolo al dente, condisco con il ragù di cinghiale e spolvero con formaggio parmigiano reggiano grattugiato e foglie di prezzemolo tritato.

Il Vino: Toscano, per esempio. E allora un Chianti Classico Riserva

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Quel Maiale Guerriero dalle carni ruvide e selvatiche che riempie i ricettari e i menu di inizio autunno.


È emergenza cinghiali in Italia.
Da quando sono state introdotte le tipologie esteuropee – sopra il quintale, aggressive e prolifiche – è una calamità senza fine, e i danni alle colture agricole, sottovalutati dalle Istituzioni, da un decennio, stanno diventando insostenibili: orti e seminati nel Veneto, vigneti e uliveti in Toscana, noccioleti in Lazio, Campania e Calabria vengono distrutti giornalmente. In più, secondo uno studio di Confagricoltura, sembra che le femmine figlino sempre più presto, per colpa di surriscaldamento globale e penuria di maschi adulti. Così, con l’inizio dell’autunno, oltre che nelle macellerie e nei supermercati, in tutte le sagre, eventi e feste paesane, la carne ruvida e selvatica di questo maiale guerriero, più antico dell’uomo, è apparsa, in abbondanza sulle piazze d’Italia, in tagli di carne cruda e piatti pronti: cosciotto arrosto, marinato e lardellato prima della rosolatura; al ragù da servire con le pappardelle; in umido, tocchetti di polpa, cotti lentamente con bacche e funghi, profumi perfetti, che rappresentano l’ideale richiamo agli umori del bosco autunnale; o cotto con le mele, castagne e i chicchi del melagrano, abbinamenti di origine medievale per bilanciare il sapore forte della carne di questo mammifero ungulato degli artiodattili, già molto diffuso nell’antica Roma e sempre presente sulla tavola del Grand Gourmet Apicio.

Quando tutti maiali erano cinghiali
Il ricettario di cucina del patrizio romano Gavio Apicio, riporta un numero grandissimo di ricette a base di carne di selvaggina; questo non deve stupire dato che il celebre gourmet scriveva e cucinava per un pubblico ricco e goloso nel I sec d.C., in un periodo cioè di abbondanza e ricchezza senza uguali nella storia di Roma. Era quindi logico che la carne del cinghiale non mancasse mai sulla sua tavola; e stando a quanto ci riferisce Columella, il Cinghiale era la star degli animali preferita dai suoi ospiti. D’altra parte sembra che nella Roma di allora, fra tutte le carni vendute al Forum boario e al Forum suarium (mercati dei bovini e dei suini) e in altre botteghe, quella più apprezzata era la carne del maiale, forse anche per il fatto che un tempo - già 6000 anni avanti Cristo, quando cominciò ad essere addomesticato – tutti maiali erano cinghiali.

Apicio: fantasioso e stravagante
Attento, scrupoloso nella ricerca degli ingredienti e degli odori migliori per alleggerirne l’alfrore selvatico, Apicio nel preparare la selvaggina, riusciva sempre a stupire i propri ospiti. E per quanto concerne il cinghiale, ecco cosa sosteneva: “Il cinghiale si cucina cosi: si lava con una spugna, lo si cosparge di sale e di cumino abbrustolito e così lo si lascia. Il giorno dopo si mette in forno. Una volta cotto lo si cosparge di miele, garum (salsa di pesce) e vino. Oppure – è sempre Apicio a parlare – Lessa il cinghiale in acqua marina con ramoscelli di lauro finché si imbeva tutto. Toglierai la cotenna e le porterai a tavola con fave stufate o con senape sale e aceto”. Il piatto che gli riusciva meglio (anche il più laborioso e difficile da preparare) era Il Cosciotto di cinghiale farcito alla Terenzio, dove con un bastoncino passava lungo tutta la giuntura del cosciotto per separarne la pelle dalla carne, in modo di potere versare, con un piccolo imbuto, il condimento proprio tra la carne e la pelle. Apicio era così meticoloso, stravagante e fantasioso a tavola che se dovessimo credere a quanto racconta Il fantasioso e storico Lampridio, si resta increduli: durante un interminabile Convivio, è riuscito ad offrire ai suoi ospiti per ben dieci giorni di fila mammella e vulva di cinghialessa, sacrificando un enorme numero di animali!

Abitante solitario dei boschi
Oggi, a distanza di 2000 anni, il fascino ruvido delle carni del cinghiale, continua a riempire manuali di cucina e menù di ristoranti (molto diversamente di come le proponeva Apicio) nei giorni che segnano l’inizio ufficiale dell’autunno. Imparagonabile alla versione domestica che ben conosciamo, questo “maiale guerriero” (così lo ha definito per la prima volta il noto giornalista Gianni Mura) è un abitante solitario dei boschi, con scarsa propensione alle regole de branco. Mediterraneo d’origine, da tempo immemore viene cacciato e allevato insieme ai suoi fratelli facoceri e pecari (quest’ultimi conosciuti soprattutto perché battezzano giacche e guanti fatti con le loro pelli), sparsi tra Europa, Asia e Americhe.

La sua carne non è facile da trattare
In cucina (se ne sono accorti anche molti Chef stellati) la carne del cinghiale non è facile da trattare: senza una adeguata marinatura, preceduta da molte ore con l’acqua a filo per spurgarne sangue e umori, il sapore sarebbe sostenibile solo per gli spiedi di Asterix il Gallico. Eppure la cucina del cinghiale, oggi, attraversa mezzo mondo ancorata a ricette ipertradizionali, con i tagli classici – coscia, spalla e sella (schiena) – elaborati secondo i comandamenti delle lunghe cotture.
Le moderne tecnologie arrivano in soccorso dei cuochi, a partire da sottovuoto e temperature controllate. Nei sacchetti privati d’aria si riduce la quota dei liquidi necessari (vino in primis), privilegiando la perfusione di bacche e odori. Allo stesso tempo, limitando i gradi in favore dei tempi lunghi, la morbidezza ha il sopravvento sulla fibrosità di una carne muscolosa in bilico tra stopposità e untuosità eccessiva. Grazie a queste pratiche gastro-virtuose, la carne del cinghiale sta entrando anche in cucine lontane dall’imprimatur venatorio, complice una presenza sul mercato in crescita costante, non solo per l’introduzione e invasione delle tipologie esteuropee, ma anche perché i parchi e le riserve di tutta Italia sono popolati da esemplari di razze autoctone, con dimensioni contenute, cucciolate esigue e numero controllato grazie ai predatori (aquile, orsi lupi).
Onore quindi a questo porcus singularis nel senso di “solitario” che attraverso il sapore ruvido e selvatico delle sue carni, ha saputo restituire a noi “golosi”, la memoria di un sapore scomparso. Celebrando il cinghiale – tanto amato anche da Asterix ed Obelix – ritroviamo anche il gusto che avevano i contadini del Medioevo.