Intervista con Marco Bellocchio

La mentalità provinciale è sintomo di chiusura mentale

A cinquant’anni dal suo esordio come regista, il regista piacentino, che sta ora realizzando un film, su torna nella sale cinematografiche svizzera con il suo ultimo film Sangue del mio sangue in contemporanea con la distribuzione della versione restaurata della sua prima opera: I Pugni in tasca.
Un‘occasione per Bellocchio, insignito all’ultimo festival di Locarno con il pardo d’onore, per uan trasferta oltre Gottardo per accompagnare l’uscita del film ed incontrare la stampa.
Lo abbiamo intervistato.


di Sara Ferretti


Lei si trova a Zurigo per presentare il suo ultimo lavoro Sangue del mio sangue, ambientato a Bobbio, sua città natale. La stessa che ha fatto da sfondo, cinquant’anni fa, al film I Pugni in tasca che ha segnato il suo esordio come regista: possiamo chiamarlo un ritorno alle origini? Come mai proprio Bobbio?
Direi che il mio ritorno è stato essenzialmente casuale. Io da circa vent’anni conduco una scuola di regia a Bobbio. Diversi anni fa sono venuto a conoscenza della possibilità di girare nelle antiche prigioni abbandonate di Bobbio e pertanto girai un frammento intitolato ‘La Monaca’ inserito successivamente all’interno del film Sangue del mio sangue. In seguito, mi è venuto il desiderio di raccontare l’antefatto di quell’episodio che è presentato nella prima parte del film, cui poi ho voluto aggiungere un episodio totalmente inventato e ambientato nel presente. Oltre al corso di regia che conduco, la mia presenza a Bobbio era dovuta anche a scelte che riguardavano anche la mia vita privata. Di conseguenza, trovandomi già a Bobbio e avendo anche visitato luoghi come le prigioni antiche, che hanno suscitato la mia curiosità e la mia immaginazione, vista la mia professione, è quasi naturale che sia stato indotto a girare qui il film.

Oltre alla città natale, ci sono anche i legami famigliari: all’interno del cast sono presenti anche i suoi figli Pier Giorgio ed Elena e suo fratello Alberto. Com’e nata l’idea di coinvolgere la famiglia, non casuale in un film che è intitolato Sangue del mio sangue?
La scelta di coinvolgere nelle riprese del film parte della mia famiglia è dovuta principalmente a due fattori. Da una parte vi erano ragioni di necessità, come ad esempio il budget e tempi piuttosto contratti i quali hanno reso naturale la presenza di familiari. Dall’altra, la scelta di coinvolgere Pier Giorgio deriva principalmente dal fatto che lui è un attore e da diversi anni frequenta la scuola di cinema di Bobbio interpretando personaggi differenti. Il lavoro con Pier Giorgio è stato sicuramente più complesso, dovendo interpretare due personaggi. Mentre per quanto riguarda Elena, lei ama il paese e ha interpretato il suo personaggio con molta naturalezza, anche se non credo vorrà mai intraprendere la carriera di attrice. È stato senz’altro un lavoro non stressante, dove ha prevalso il divertimento.

La religione, come la follia è un tema ricorrente nei suoi lavori, basti citare L’ora di religione, Bella addormentata e I Pugni in tasca. Lei che rapporto ha con la religione?
Storicamente, io provengo da una famiglia d’impronta cattolica, per cui ho ricevuto un’educazione cattolica. Tuttavia, a partire dai tempi dell’adolescenza è avvenuto un distacco da parte mia: i concetti come la paura dell’inferno e della dannazione, sui quali si basava essenzialmente la mia fede persero rilevanza all’interno della società contemporanea, e mi ritrovai quindi senza fede. Ciò nonostante, anche se non si ha più fede, rimane un abito mentale che direttamente, in qualche modo ha origine in un tipo di cultura ed educazione cattolica. Questo è un sentimento piuttosto diffuso nella nostra società. In questo senso, credo di avere ancora in me dei residui di quell’educazione cattolica, ma ad ogni modo non mi ritengo credente, non credo nella vita eterna. Credo piuttosto che la vita si giochi tutta in questa dimensione. Qualche sacerdote ritiene invece che in realtà io senza rendermene conto sia un credente o comunque abbia degli interessi per la trascendenza. Eppure a livello di percezione profonda non mi sembra di avere una fede religiosa.

Sempre nel suo ultimo lavoro emerge forte anche un altro tema, ovvero la contrapposizione tra passato e presente: si può dire che, nel suo ultimo film, il personaggio del conte vampiro sia anche piuttosto emblematica della società italiana dei giorni nostri.
Lui fa riferimento appunto ad un isolazionismo di tipo vampiresco, come se questo ‘vampirismo comunale’ trasmettesse un certo benessere a coloro che accettavano questo tipo di isolamento protettivo, questo limite alla libertà. In qualche modo, i vecchi poteri difendevano una certa stabilità ed autonomia da ‘invasioni barbariche’ esterne. Il conte si rende conto che tutto questo è finito proprio perché il mondo in cui oggi viviamo è profondamente cambiato, non ha più confini. Dimensioni come provincia e paese sono divenute oramai anacronistiche dal momento che la comunicazione ci permette di raggiungere i confini del mondo. Oggi tuttavia, in Italia, ma non solo, ci sono delle spinte, che definirei disperate, di ritornare ad un’identità di paese. Ma è una battaglia persa, che potrà avere al massimo qualche seguito, magari elettorale, di brave durata. È rimasta senz’altro una mentalità provinciale, che però a differenza del passato, oggi coincide con una chiusura mentale al resto del mondo.

In contemporanea alla programmazione di Sangue del mio sangue in Svizzera viene riproposta anche la versione restaurata di I Pugni in tasca: si tratta di una casualità o c’è l’intenzione di lanciare un messaggio? A 50 anni dalla sua uscita Pugni in tasca mantiene la sua attualità?
La casualità è stata senz’altro quella di essere l’anniversario dei 50 anni. Il caso ha voluto che il restauro del film realizzato dalla Cineteca di Bologna abbia coinciso con l’uscita dell’ultimo film, guarda caso girato anch’esso a Bobbio. Non vorrei usare un paradosso ma credo che Pugni in tasca abbia avuto così successo sia in passato che oggi, proprio per la sua inattualità. Se il film avesse trattato dei problemi che affliggevano l’Italia di allora, se avesse voluto simboleggiare una denuncia sociale, non credo avrebbe avuto questo seguito anche oggi in Svizzera. È proprio la sua astrazione, la sua inattualità, la sua violenza che entra nel cuore delle tragedie familiari che lo rende attuale oggi. Inoltre, il caso ha voluto che il film precedesse il movimento del ’68, per cui il protagonista del film, che possiamo definire un ribelle, è stato percepito all’epoca come un eroe. Tuttavia, non lo definirei un rivoluzionario, ma piuttosto un distruttore radicale di un certo conformismo, interpretato nel film dalla famiglia, da cui si deve cambiare.

Concludendo, tornando al suo ultimo lavoro, Sangue del mio sangue tra i protagonisti compare anche la figura di un fratello suicida: una simmetria intenzionale e ben precisa, conoscendo la sua vicenda personale?
Certo, questa vicenda del fratello che arriva a vendicare il gemello suicida in qualche modo mi riguardava personalmente. Questo non è il primo film in cui affronto il tema del suicidio del gemello: nel 1981 girai un film Gli occhi e la bocca, un film che non rinnego, però c’era una tale presa diretta con la realtà che, anche se lì la storia era completamente diversa da quella che era capitata a me mi accorsi in seguito che aveva inibito e bloccato la mia immaginazione. Inoltre, mia madre era ancora viva, così come i miei fratelli, per cui affrontavo un tema al quale non ero preparato. Questo tema al contrario l’ho trattato con molta più libertà in Sangue del mio sangue perché trasferendolo in un’epoca inventata mi sono sentito molto più libero.

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