di Giovanni Sorge
Noto soprattutto per l’indimenticabile Pane e Tulipani (1999), Silvio Soldini è regista eclettico che spazia dalla fiction al documentario e sa coniugare poesia, dramma e fantasia. Nella sua ultima opera, Il colore nascosto delle cose, il regista italo-ticinese affronta un tema a lui caro: quello della cecità. Lo fa raccontando un incontro fra due diversi modi di vedere la realtà, non vederla e vederle oltre, magistralmente interpretati da Valeria Golino e Adriano Giannini. Lo abbiamo incontrato.
Partiamo dall’inizio. Lei ha cominciato a frequentare scienze politiche, dopodiché si è trasferito a New York per studiare cinema. Cosa l’ha spinta a prendere questa decisione? E ritiene che in qualche modo la politica sia presente nei suoi film?
In realtà, avevo scelto scienze politiche perché non sapevo cosa fare. Mi piaceva molto il cinema che avevo scoperto attorno ai 16-17 anni alla cineteca, ma non osavo pensare di provare a farlo io stesso. Dopo due anni all’università senza alcun entusiasmo, ho deciso di andare a New York, anche perché in Italia il Centro sperimentale era allora chiuso. Quindi, con l’aiuto di mio padre, sfruttando il fatto che c’era una mia lontana cugina che a New York faceva la montatrice, sono partito. E quando sono tornato, ben deciso a provare questo mestiere, ho iniziato con dei cortometraggi, dei mediometraggi in 16 millimetri, fondamentalmente insieme a Luca Bigazzi, direttore della fotografia, che all’epoca lavorava in pubblicità, facendo l’aiuto regista, ma col sogno di fare fotografia. Così abbiamo iniziato, con i mezzi che avevamo, che erano pochissimi; lui si faceva prestare la macchina da presa di notte, ecc. (ride). In Italia dunque mi son trovato davanti a un bivio: sarei potuto andare a Roma, dov’è sempre stato centralizzato il cinema italiano, però non conoscevo nessuno del cosiddetto mondo del cinema romano, quindi, che ci andavo a fare? Non ero il tipo spavaldo, estroverso, che poteva andare e farsi conoscere, ero piuttosto timido, introverso. Perciò, sull’onda di esempi di cinema indipendente, come la New Wave americana, in parte anche il nuovo cinema tedesco, ci siam messi a fare dei film a bassissimo costo: è stata un po’ una seconda scuola sia per me che per Bigazzi.
Che è stato quindi il suo principale collaboratore.
Si, fino a Brucio nel vento nel 2002.
Se guardiamo a volo d’uccello la sua opera, così particolare nel panorama italiano e internazionale, il suo risulta un percorso molto personale. Forse che in realtà, piuttosto che la mancanza di spavalderia, non le era congeniale adeguarsi a un certo ambiente cinematografico?
Assolutamente, ho sempre preferito starne alla larga. Poi a Roma ci vado perché i miei collaboratori soprattutto in fase di sceneggiatura sono li. Il colore nascosto delle cose per la prima volta è stato girato a Roma.
Il suo nuovo film riprende, oltre al topos della ricerca dell’identità anche in contrasto con le aspettative del sociale, il tema della cecità, già presente in L’albero indiano (2014, visibile anche su https://www.youtube.com/watch?v=cpvM3fYhHwA) e in Per altri occhi (2013). Come è nato questo suo interesse?
Un giorno in cui avevo mal di schiena e un’amica mi ha consigliato un fisioterapista osteopata; e poi ha aggiunto: ‘ah, guarda che è cieco’. Mi son detto, proviamo, perché no, forse è meglio di quelli che ci vedono... Ho cominciato ad andarci, e ogni volta Enrico mi stupiva sempre di più per com’era, come si muoveva nel proprio spazio, per quel che mi raccontava: una volta doveva andare a sciare, un’altra a fare regate, ad un certo punto mi son detto: c’è qualcosa che… proprio non so; perché l’idea che abbiamo, o che comunque avevo, della cecità, era molto più limitata; quindi nei 4-5 mesi di tempo prima di girare Il comandante e la cicogna ci siam messi a lavorare a questo documentario. Siamo andati a cercare altre persone cieche per tentare di entrare un po’ in questo mondo e raccontarne l’eccezionalità, perché nonostante la loro disabilità esse riescono ad affrontare la vita con grande forza, energia, ma anche straordinaria ironia e autoironia. Quindi, alcuni mesi dopo l’uscita di Per altri occhi [Avventure quotidiane di un manipolo di ciechi, S. Soldini e Giorgio Garini, 2013], lo scultore non vedente Felice Tagliaferri è stato invitato a tenere un laboratorio in India per dei ragazzini con ogni tipo di disabilità, e mi hanno chiesto se avevo voglia di filmarlo. Quindi, siamo partiti, in due, seguendolo in questa vera e propria impresa per due settimane. In seguito, mi sono reso conto che l’esperienza e la conoscenza che avevo acquisito non l’avevo mai vista al cinema, perciò mi son detto: perché non provare a raccontare una storia che avviene tutti i giorni, a nostra insaputa, tra due persone di cui una magari è cieca? Sicché con gli sceneggiatori Doriana [Leondeff] e Davide [Lantieri] abbiamo fatto ulteriori ricerche, conosciuto altre persone per farci raccontare un po’ di vicende anche di vita reale. Poi alcuni non vedenti, soprattutto donne, ci hanno aiutato, leggendo il soggetto e, man mano, la sceneggiatura; esprimendo commenti e dandoci una grande consulenza per tutto il lavoro necessario all’’interpretazione di Emma. Perché una persona che non ci vede ha un ascolto molto diverso dal nostro. Quando ho letto il soggetto per la prima volta a queste donne non vedenti, mi sono accorto di quanto mi ascoltavano. Pazzesco. Come se – per così dire – ‘vedessero’ il film nella testa mentre io ne parlavo.
Che in un certo senso poi tecnicamente è vero, no?
Si, certo, infatti loro dicono “ho visto un film”, non “l’ho sentito”. Lo vedi, anche se non con gli occhi. Quindi già durante il racconto avevano una capacità di ascolto talmente fine, si ricordavano di dettagli sbalorditivi di quel che avevo detto, e facevano domande così specifiche… non mi era mai successo di confrontarmi con persone che ti ascoltano in questo modo senza vederti, e perciò senza poter trarre alcun giudizio dalla vista, che invece noi utilizziamo molto… appena ci vediamo ci scannerizziamo un po’, no? Mentre un cieco solo dalla stretta di mano capisce molte cose…
Come neanche uno psicoanalista…
Felice Tagliaferri, fanatico del genere femminile, dice che stringendo la mano di una donna riesce a indovinarne più o meno l’età.
Ne L’albero indiano c’è una testimonianza toccante di una donna che afferma di ritenere, da quando iniziò a perdere gradualmente la vista, di essere forse diventata più saggia, di vedere cose che gli altri non vedono.
Perciò ne Il colore nascosto delle cose da un lato, non volevo mettere in scena la cecità nel solito modo drammatico, come se i ciechi fossero schiacciati dal peso della loro disabilità, del loro dramma, cosa che invece non corrisponde al vero. Dall’altro, non volevo neanche cadere in una specie di stereotipo del cieco al cinema, con l’occhio sempre un po’ basso, così, fisso, perché non è cosi, dato che a seconda della malattia che ha portato alla cecità, gli occhi sono a volte normalissimi. È molto difficile capire che uno è cieco parlandogli, poi si alza…, e te ne accorgi.
In loro il tatto, l’olfatto, vengono per così dire potenziati...
Beh, si fa automaticamente più attenzione, quando la vista è annullata, tutti gli altri sensi vengono in soccorso; come nell’esperimento del dialogo al buio inscenato nel film. L'ho provato 2-3 volte. Si trascorre un’ora nel buio più totale con un cieco che ti fa da guida, in un percorso sonoro, olfattivo, tattile; ti fanno toccare cose, indovinare di che si tratta, ecc., ed è molto bello, anche se qualcuno può andare un po’ in panico… a qualcun altro viene il mal di testa. È un esperimento istruttivo, perché dopo un po’ capisci che non c’è niente da vedere e ti accorgi che devi veramente amplificare tutti gli altri sensi per andare avanti...
In un’intervista su Il fiume ha sempre ragione (2016) ha detto che Alberto Casiraghi e Josef Weiss, i due tipografi a cui è dedicato il documentario, continuano a operare in un mondo d'altri tempi che va in una direzione opposta al diktat, della velocità. Ci vengono così ricordati e trasmessi valori che stanno scomparendo. Mi sembra che il suo film contenga un messaggio psicologico, ma forse anche politico, invitandoci a riconsiderare la vita con altri ritmi e – direi – con altri occhi.
È un messaggio forse anche politico – non lo so, magari politico-poetico. Sono stato molto colpito da Casiraghi e Weiss: la molla che mi ha fatto iniziare a girare quel film è stata proprio la domanda come sia possibile che due persone riescano a vivere così. Due tipografi che stampano col piombo, ancora, come una volta, con caratteri mobili, ecc. Entrando nel loro mondo si percepisce una tranquillità; un modo di affrontare le giornate che noi non abbiamo più, perché ormai siamo invasi da troppe cose, troppi stimoli, continuamente in contatto con un altrove. Invece quando si fa un lavoro lo stress viene lasciato fuori dalla porta. E ho scoperto che sono due persone veramente straordinarie, oltre ad essere anche un po’ filosofi e poeti. Perché per vivere così bisogna saper credere nei propri valori, senza badare a quelli propugnati e venduti da un mondo che va in direzione opposta. E bisogna tener duro, essere capaci. Mi sembrava giusto sottolineare questa cosa, farli conoscere un po’ di più. Perché credo che ci siano tante persone come me, o come loro, che magari non ce la fanno; vorrebbero ma non ci riescono, o comunque tendono a dimenticare quali sono veramente le cose che amano. Potrebbe sembrare uno sguardo all’indietro, nostalgico, ma non lo credo: non è la nostalgia ad avermi spinto, ma il fatto che ancora oggi esistono persone così, e valori che non vanno dimenticati.
Credo che anche Il colore nascosto delle cose trasmetta valori importanti e che si tende a dimenticare. Perché da una parte Teo, e dall’altra Emma, rappresentano un po’ due opposti, soprattutto all’inizio: lui che vive in questa società del consumo, continuamente attaccato allo smart phone, messaggini, chat, insomma in un mondo fatto di velocità - e di apparenza, perché tratta con le immagini pubblicitarie. Mentre lei, che non ci vede, benché faccia uso del telefonino e ascolti i messaggi o le email, ha però un altro modo di utilizzarlo; sicché, almeno per come la vedo, nella scena in cui si fermano a parlare nel boschetto vicino al vivaio, per la prima volta si crea un po’ un tempo diverso, rispetto a quella che è la sua vita, e perciò riesce a confessarle qualcosa che nella velocità e nello stress della sua esistenza mai aveva detto a qualcuno, qualcosa che è parte della sua storia.
Le parla di suo padre. E, aprendosi con lei, inizia in lui un cambiamento.
Si, Teo è il personaggio che sicuramente cambia di più. Emma non cambia. È una persona forte, nonostante la sua disabilità. Siamo abituati a pensare che qualcuno che soffre di quel tipo di disabilità sia molto fragile, dipendente, costretto a una condizione priva di un rapporto con la cosiddetta vita normale, mentre, dei due, Emma sicuramente è la persona più solida; viceversa Teo si trova ancora in una situazione di ricerca – in realtà, della sua vera identità, perché in qualche modo, a differenza di lei, ha ancora tutta una serie di problemi da risolvere.
Anche rispetto alla sua tendenza, con le donne, a tenere il piede in due scarpe.
Si, Teo è un po’ tombeur de femmes.
Ci sono anche belle figure secondarie, come Nadia, la studentessa di Emma brillantemente interpretata da Laura Adriani, che non riesce ad accettare la propria condizione.
È l’altro personaggio che cambia.
E poi la coinquilina di Emma, che parla dialetto veneto… La caratterizzazione linguistico-dialettale ricorre nei suoi film.
Arianna [Scommegna] è di Milano, ma riesce a parlare benissimo anche il veneto. A me piace caratterizzare un po’ i personaggi anche da quel punto di vista. E se un attore lo fa volentieri, io sono contento (ride). Nelle commedie questo tipo di caratterizzazione risulta più vistosa, puoi farci molto; nei film più drammatici bisogna stare più attenti, ma qualche pennellata secondo me è giusta darla. Poi alla fine dei conti la realtà supera sempre la fantasia, è una frase nota, ma vera: se si mettessero in scena certi personaggi della vita reale così come sono in un film, nessuno ci crederebbe… Quindi un pochino bisogna cercare dei colori, per dar loro uno spessore; per farli rimanere almeno qualche settimana nella testa degli spettatori, sennò, se son troppo trasparenti, te ne dimentichi presto. Perciò mi piace provare ad azzardare un pochino, dare dei tocchi precisi, diciamo.
Lo fa anche nei suoi documentari.
Soprattutto nel documentario mi piace scoprire conoscere realtà che non conosco e tornare a casa con delle riprese poi costruire qualche cosa, ma la cosa bella è anche andare a conoscere, a capire un mondo che non conosci, e ce n’è tanti. Anche facendo un documentario sul lattaio sotto casa scopri cose nuove. Purtroppo trovare finanziamenti per un documentario, in Italia, è molto difficile. Ma é qualcosa che mi arricchisce, anche umanamente, com’è stato ad esempio entrare in contatto con Casiraghi e Weiss. Invece nella finzione devi ricreare devi creare tu un mondo. Utilizzando anche parte della realtà che vedi.
Per tornare al Colore nascosto delle cose. Che reazioni ha avuto il film da parte di persone ipovedenti e cieche?
Una delle cose che mi rallegra molto è che tutti i ciechi che conosco e che l’hanno visto sono rimasti contenti, e mi hanno detto: ‘finalmente un personaggio cieco che ci rappresenta’!