Intervista con Valeria Golino: "Faccio, faccio, faccio… sognando di non fare"

di Giovanni Sorge

Il suo sguardo è inconfondibile quanto la sua voce. Il suo straordinario talento l’ha portata a raggiungere una fama internazionale che a fatica trova paragoni in Italia anche per la singolarità di una carriera folgorante perseguita al di fuori e al di sopra di schemi ed stereotipi. Valeria Golino torna a stupire con la superba interpretazione di una donna non vedente nell’ultimo film di Silvio Soldini Il colore nascosto delle cose, presentato fuori concorso alla 74. Mostra del Cinema di Venezia ora in uscita nelle sale della Svizzera d’Oltregottardo.

In Per amor vostro di Giuseppe Gaudino (2015) interpretavi Anna, madre di un figlio sordomuto. “Il linguaggio dei segni usato da Anna – hai detto in un’intervista – è stato appreso per amore, per condividere l’universo di silenzio del figlio”. Nel film Il colore nascosto delle cose di Silvio Soldini, impersoni una non vedente, Emma. C’è un legame tra questi ruoli, caratterizzati da una comunicazione ‘altra’ che nasce da una mancanza? Cosa ti ha dato questa esperienza?
Beh, è chiaro che per un attore avere degli ostacoli, nella comunicazione – diciamo – quotidiana con gli altri e, quindi, nell’espressione dei sentimenti, oppure, tramite l’ostacolo creare nuovi linguaggi, intendo anche preesistenti, è importante. Ad esempio in Per amor vostro con mio figlio utilizziamo il LIS [Lingua dei segni italiana], che risulta molto più espressivo e cinematografico che impersonare un cieco. Perché il LIS ti permette la gestualità, l’espressione facciale e degli occhi è importantissima; quindi, se vogliamo, è espressionistico. Invece nella cecità è il contrario, è proprio la negazione dell’espressività: tutto viene introiettato. Mentre imparando la tecnica del LIS in qualche modo tu come attore puoi sfoggiare anche la tua voglia di comunicare, quando fai un cieco viene a mancare il primo strumento dell’espressione, gli occhi. Quindi sono interessata a questi ruoli perché in qualche modo mi danno la possibilità di fare un passo avanti, diciamo, nel mio percorso personale, al di là di come poi vanno i film, che naturalmente si spera sempre vengano bene. Sono molto legata a Per amor vostro. Credo che mi abbia dato un grandissimo regalo, per varie ragioni, compreso l’essere napoletana di Anna, che usava il dialetto con la famiglia, ma passava all’italiano per comunicare con gli altri.

Quasi fosse un’altra lingua.
Un’altra lingua, un’altra musica. Anche per motivi personali, di famiglia, sono bilingue, poi ho imparato altri idiomi, quindi so come cambia tutto a seconda della lingua in cui ti esprimi: per me è come un parco giochi, insomma, è una cosa che mi piace poter approfondire: in che lingua sogni, in che lingua ti esprimi, come cambia la tua voce a seconda della lingua... Io poi ho una voce particolarmente riconoscibile.

Voce e sguardo, certamente…
Anche lo sguardo, forse; e in Emma, per forza, di cose, è diverso. Quando ho rivisto l’ultimo film ho pensato: però vedi, c’è anche qualcosa di interessate in quel non guardare, no? Che è di assorbire l’altro senza vederlo. Impersonare questi ruoli mi ha messo alla prova. Sono state entrambe esperienze che mi sono rimaste. Esperienze affatto facili, faticose... Perché a volte sono anche refrattaria. Sono molto pigra, di base. Una pigra, sai, un po’ come quei topolini che corrono nella ruota, che invece fa, fa, fa, e sogna sempre di non fare, non fare, non fare… (ride) Adoro i momenti in cui non faccio niente.

Insomma sei una ‘pigra’ attivissima, come dimostra la tua impressionante carriera. C‘è qualche personaggio in cui ti sei particolarmente ritrovata?
Dunque, ci sono due sensazioni diverse che ti danno i personaggi fatti bene. A volte ti ritrovi, e a volte non ti trovi. E non trovarsi è bellissimo. Cioè non sentire se stessi, la tua nevrosi, le tue paure, il tuo profumo proprio, il tuo odore. Non averlo messo nel personaggio. Non ritrovare me stesso, per me, è già una vittoria.

Perché ci si può separare più facilmente?
No, perché non sei tu. Sei un altro. Più sei un altro e non sei tu, più mi piace. È chiaro che metti sempre cose tue, porti il personaggio verso di te, vai verso il personaggio, poi nel migliore dei casi nasce una ‘terza entità’ che non è né il personaggio com’era scritto sulla carta, né te, ma quell’incontro che crea questa persona. E quando sento di non essermi adagiata, e di aver percepito altro, qualcosa d’inaspettato, mi piace e sento di aver fatto un passo avanti. Quindi ritrovarsi o non ritrovarsi: anche quello è bello. Per esempio, Emma, ogni tanto mi dico, ma chi è?

È una donna di enorme dignità.
Si, quello sì.

Che tra l’altro non cambia, se vogliamo, quanto la figura di Teo o per esempio quella di Nadia, che Emma stessa aiuta a evolvere.
Tutte e due cambiano. Perché Emma nel corso della storia per così dire si rompe un po’, rispetto a come la trovi, tutta che sa tutto il fattino suo…

La scena del supermercato è eccezionale.
Adoro quella scena, è una delle mie preferite. Diciamo che Emma mi somiglia poco, anche se qualche volta, senza farlo apposta, sono entrata… per esempio c’è una sua parte infantile, quando ride e sembra ogni tanto una bambina, che è una cosa che porto io al film e che non volevo fare, che però mi trapassa. Quella sua parte infantile, che non è che è brutta o bella, la sento molto come mia. Forse avrei preferito non portare quell’elemento d’infanzia che riconosco mio, dentro questa figura che secondo me era invece una donna adulta sotto ogni aspetto. Però allo stesso tempo, quando c’è da fare, non sto lì a teorizzare troppo.

Spesso impersoni donne che, oltre le convenzioni, seguono la propria libertà interiore e anche la propria passionalità. Penso ad esempio all’insegnante in Texas (Fausto Paravidino, 2005). Come sei riuscita a mantenerti indipendente e libera da certe etichette legate all’italianità o anche alla napoletanità?
Si, sono riuscita a non farmi categorizzare, definire. Anche quando ero in America; che poteva essere il momento più facile per farmi entrare nella categoria dell’“italiana”. Forse, se mi avessero definito, avrei fatto più soldi, perché definire e lasciarsi definire agevola sempre le cose. Ma questa resistenza mi è comunque connaturata.

È stato così fin dall’inizio?
Si, ma non la considero una mia battaglia, è semplicemente quello che è; non so come dire, non mi sono mai battuta troppo per nulla, non porto avanti delle battaglie teoriche. Secondo me le cose che ho fatto o non ho fatto, anche quando ho commesso errori, sono nate da determinate circostanze e da decisioni rispetto a ciò che mi sembrava migliore al momento; non sempre avevo ragione, spesso sì.

Ti riferisci alla scelta dei ruoli?

Anche alla scelta di come porsi verso gli altri, di dove andare, in che paese stare, che cinema seguire: non mi sono mai veramente posta un obiettivo di coerenza ideologica a tutti i costi, però ho sempre saputo quel che non mi andava di fare e… diciamo che ho un’ambivalenza, sempre, rispetto a dove sono e dove vorrei essere. Anche questo mi aiuta a non essere definita.

Che cosa caratterizza, sostiene la tua coerenza?
Non saprei… ma in genere m’interessano i punti di vista degli altri quando sono evidenti, diversi dal mio, diciamo ogniqualvolta sento che c’è un punto di vista originale. Quello è il cinema. Il cinema è il punto di vista. In questo senso, per esempio, il 3D non sarà mai il cinema, tutt’al più un’esperienza. Punto di vista vuol dire guardare una cosa da un punto anziché da un altro. Di conseguenza ogni cosa prende un peso diverso, un colore diverso. Pensa invece al 3D: col 3D puoi guardare la cosa da ogni parte, quindi il punto di vista è diluito: se io, spettatore, decido dove guardare, è il mio punto di vista, cioè tu mi crei una situazione per cui io decido cosa m’interessa cosa guardare. Col 3D il punto di vista appartiene solo al soggetto che interagisce.

…In linea coll’ipersoggettivizzazione di questi tempi di I phone, pad pod e quant’altro. Che rapporto hai con i social? Come attrice ne sei senz’altro molto esposta…
Non mi curo di nessuna di quelle cose moderne di cui ci si aspetta dovrei curarmi normalmente. Tipo i like, don’t like… fai un concerto, un’apparizione televisiva, dici qualcosa e subito si precipitano questi a dirti quanto sei bravo o meno, o arrivano questi altri a dirti ‘sei una merda’, ‘sei bravissimo’. Ecco per me tutto questo è un’astrazione totale… non ne voglio sapere… Io poi di volta in volta mi accorgo tramite le persone se quel che ho fatto lascia traccia o meno, ma non cerco di seguire quello che piacerebbe, se ci fosse, al mio pubblico, se esistesse, o comunque a un pubblico generico che guarda per poi dire bello o non bello.

D’altronde, like o non like, é una faccenda di mera quantità, poco hanno a che fare con la qualità…
Ma sarò libera anche di fare i miei errori? Se un artista dovesse seguire quello che piace agli altri, non ci sarebbe più il suo punto di vista, come dicevamo prima, la sua originalità. No, e poi questa cosa qui non la faccio, come dire, come protesta, proprio non m’interessa.

Qualche anno fa hai debuttato alla regia con Miele (2013), che tratta dell’eutanasia. Indubbiamente una scelta coraggiosa, per il panorama italiano e non solo.

Non lo so che impatto abbia avuto, in assoluto, politicamente, però sicuramente a me ha portato tantissimo, anche per quanto riguarda la percezione degli altri su di me. Penso che sia un bel film, la cosa più vicina al film che volevo fare. Penso che possa in qualche modo far pensare, magari scardinare delle convinzioni, ma non perché ti provoca, ma semplicemente perché pone una domanda. E credo che quando il cinema scardina delle convinzioni, e convenzioni, sia ancora degno di esistere.

Quindi proseguirai sulla doppia strada di attrice e regista?

Fra poco comincio il mio prossimo film, che ho scritto dall’inizio. E ho molta, molta paura…

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