Jackie di Pablo Larrain

Sono passati cinque giorni dalla morte di John Kennedy e la stampa bussa alla porta di Jackie per chiedere il (reso)conto. Una relazione particolareggiata dei fatti di Dallas. Sigaretta dopo sigaretta, Jackie ristabilirà la verità e stabilirà la sua storia attraverso le domande di Theodore H. White, giornalista politico di Life. Una favola che il suo interlocutore redige e Jackie rilegge, rettifica, manipola, perfeziona.
Apparentemente fragile e insicura, perfino nel momento di gloria del White House Tour trasmesso dalla CBS, la Jackie del regista cileno è capace di durezza e determinazione, che nel film emergono nell'organizzazione e nella gestione dei funerali del marito alla Casa Bianca come nel confronto con il giornalista che la intervista in casa. Ma non per questo, e in entrambe le situazioni, non mostra crepe dalla quale filtra senza vergogna tutto il suo dolore e lo sconcerto per la tragedia che ha subito e alla quale ha assistito da protagonista.
L'approccio di Pablo Larrain a Jacqueline Kennedy non è quello di un biografo. Non è nemmeno quello di una persona che ha intenzione di decifrare l'enigma di una donna complessa e poco decifrabile, lavorando anzi sulle sue zone d'ombra e sulle sue contraddizioni umane e comportamentali e utilizzandole per regalare al suo film la stessa gamma di sfumature e di sfaccettature.
Di Jackie, Larrain abbraccia il mistero, potente e seduttivo, così femminile, così universale: quel mistero che si fa mito, e quel mito che serve alla costruzione delle icone e del potere. 

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