JESH!

di Giovanni Sorge

Che cosa significa, oggi, identità ebraica? A questa domanda il festival cinematografico Jesh!, giunto alla sua quarta edizione, ha risposto con un ricco carnet di fictions, documentari e film storici su questioni sociali, socioculturali, politiche e religiose attinenti al mondo ebraico (http://www.yesh.ch). La rassegna zurighese diretta da Michel Rappaport e sponsorizzata dalla Evi & Sigi Feigel Loge promuove così un dibattito su temi di scottante attualità (ad esempio con Ben Gurion, Epilogue di Yavir Mozer, un’intervista con il primo premier dello stato d’Israele; A land withouth Borders di Michael Alalu e Nir Barman, impressionante testimonianza della vita quotidiana in Cisgiordania; e Between Worlds di Miya Hatav): e al riguardo non poteva mancare la piaga del negazionismo (con Denial di Mick Jackson, sulla vicenda processuale a carico del famigerato David Irving) e del fiorire dell’antisemitismo in rete (The Patriot di Daniel Sivan).

Non sono mancati toni più leggeri, ad esempio grazie alla fiction italiana Lasciati andare di Francesco Amato con un eccellente Toni Servillo nei panni di Elia, psicoanalista di mezz’età colto e ironico ma perennemente in bolletta (almeno sembra), ancora innamorato della moglie Giovanna (Carla Signoris) da cui non si è separato per evitare le spese legali, più interessato all’analisi che alla sinagoga (anche perché “un paziente guarito è un paziente perso”), che viene gradualmente e piacevolmente travolto dalla contagiosa simpatia di una personal trainer (Veronica Echegui) sbarazzina e un po’ sballinata. Così Elia si trova coinvolto in una serie di peripezie causate dalla giovane amica e dal suo squinternato compagno spacciatore (Luca Marinelli), che obbliga lo psicoterapeuta a ipnotizzarlo per cercare di ricordarsi il posto esatto dove ha seppellito il ricavato di una rapina. La tenuta del film risulta però, soprattutto nella seconda parte, po’ disarticolata, quasi che Amato abbia voluto infilare sin troppo nella già traboccante sceneggiatura, con risultati a volte forzati o sconfinanti nel caricaturale. Resta comunque una commedia godibile e frizzante.

D’altro genere Longing dell’israeliano Savi Gabizon, dramma inconsueto sulla questione della paternità. Lo spigoloso Ariel (Shai Avivi) viene a sapere dall’ex compagna (Assi Levy) di aver avuto un figlio solo dopo che questi è morto in un incidente. Ariel si mette alla ricerca delle tracce dell’esistenza stroncata che cerca sempre più ossessivamente di far rivivere. Va a conoscere i compagni di classe e non disdegna di tampinare l’insegnante di cui il figlio era tanto innamorato da dedicarle, vergandola nientepopodimeno che su una parete della scuola, una poesia erotica tutt’altro che platonica (molto godibile il visionario cammeo al riguardo). Pian piano, del defunto, emerge un quadro non proprio casa & sinagoga: dall’amico gay con debiti per spaccio alla compagna minorenne – rimasta pure incinta. Frattanto in cimitero Ariel conosce un altro padre, distrutto dal suicidio della figlia adolescente, e gli viene un‘idea risolutrice: perché non celebrare un matrimonio fra i giovani deceduti, per dar loro pace, e dar pace soprattutto a sé stessi, con buona pace della sfortunata fidanzatina? Detto fatto, s’organizza la cerimonia nunziale, surreale quanto macabra, tra le immagini dei due trapassati con tanto di parenti invitati e ballerine di flamenco. Sicché, forse senza avvedersene, la storia assume tratti persino grotteschi nel descrivere il crescendo ossessivo (e possessivo) del bisogno di paternità del protagonista, mettendone in luce l’avvitamento egoistico – l’opzione adozione nemmeno lo sfiora – che pretende di far nascere e crescere il potenziale nipote in grembo alla teoretica nuora, in barba ai suoi quindici anni. Un concretismo amoroso, insomma, che fa riflettere.

C’è infine da segnalare una stella nascente, quella di Arthur Harari col suo primo lungometraggio Dark Diamond, un magistrale thriller psiconoir in stile anni Settanta su una dinastia ebrea di mercanti di diamanti. Alla morte del padre Pier (un grandioso Niels Schneider) ha un solo, irremovibile proposito: vendicare l’estromissione dai lucrosi affari del ramo fortunato della famiglia. Così s’infiltra gradatamente e abilmente nell’azienda in mano allo zio Joseph (Hans-Peter Cloos) e al cugino Gabi (August Diehl), meditando di “far loro del male, farli soffrire”; con la complicità del suo mentore e padre putativo Rachid (Abdel Hafed Bnotman), maestro di vita e di crimine. Ma in una scena memorabile il gelido delirio vendicativo di Pier dovrà misurarsi con la vicinanza, accresciutasi in diversi sensi, ai privilegiati consanguinei, e con una rivelazione dello zio, che parimenti si troverà a decidere tra rivalsa e senso della continuità familiare. È un thriller potente, di notevole suspence e talento estetico quello di Harari, che incardina l’atavico, amletico motivo della vedetta in un plot mefistofelico e multidimensionale giocando su un’impressionante serie di piani, tra costellazioni familiari, risvolti psicologici, sociali ed emotivi. Di più, il film è ambientato ad Anversa, città che da mezzo millennio detiene il commercio dei diamanti, ma ne inscena la produzione in India in modo estremamente realistico: è nel subcontinente indiano che, a tutt’oggi, si lavorano il 95% dei diamanti grezzi del globo (con un fatturato di oltre 14 miliardi di dollari), con largo impiego di lavoro minorile in condizioni disumane (e un’aspettativa di vita intorno ai 35 anni). Tant’è che dalla sua uscita Dark Diamond ha meritoriamente sollevato, benché certo non risolto, il problema (v. al riguardo https://www.giornalettismo.com/archives/685925/la-citta-che-lava-i-diamanti-di-sangue).
In chiusura del festival, alla questione posta all’inizio Amichai Greenberg, dopo la proiezione del suo The Testament, straordinaria commistione tra fiction e documentario (appena uscito in Italia come La testionianza), ha dato una bella risposta: la Jewish identity non è rilevante solamente per il modo ebraico, ma in quanto spunto e metafora per trattare dell’identità e dell’appartenenza. “Oggi infatti vediamo sempre più contrapporsi da un lato movimenti nazionalisti che si definiscono per ciò che non si è, e dall’altro coloro che sorvolano ogni differenza. Per me, l’identità va rinvigorita e rafforzata, perché this is the key to really unite the people”.

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