(Brevi considerazioni su una paura dei nostri tempi)

di Nico Tanzi

Ricordo ancora a distanza di molti anni come un vero e proprio “momento magico” una cena a lume di candela su una terrazza affacciata sul mare. Lume di candela in senso letterale: le uniche fonti luminose erano le fiammelle accese sui pochi tavoli. La bellezza del luogo e il romanticismo che la situazione potrebbe evocare c'entrano solo in minima parte con l'intensità di quell'esperienza. C'eravamo seduti a tavola mentre gli ultimi raggi del sole ancora sfioravano il paesaggio. Ma quando il sole è sparito oltre il filo dell'orizzonte, lentamente ma inesorabilmente, il mondo intorno a noi si è immerso nell'oscurità più totale. Nessuna traccia di quell'«inquinamento luminoso» che caratterizza porzioni sempre più larghe del nostro mondo, e che ci rende sempre più difficile contemplare il cielo stellato. Ricordo poche altre esperienze paragonabili a quella. Una notte nella vaI Bavona, dove non c’è luce elettrica. Una notte “nera come la pece” fra i sentieri della campagna senese, appena fuori da un minuscolo borgo fortificato. Parentesi d'eccezione, in un'esistenza costantemente e massicciamente bombardata dai watt luminosi.
La storia dell'umanità, d'altra parte, offre tutte le spiegazioni possibili. L'oscurità, il buio, a lungo sono stati (e lo sono ancora adesso) sinonimi di minaccia, pericolo, inquietudine. Luoghi tranquillamente frequentati alla luce del sole, di notte se non illuminati si trasformano in posti da evitare, evocano paura e tensione. Il paesaggio stesso, nella nostra percezione, di notte diventa magico e suggestivo solo quando è illuminato— magari con luci studiate ad hoc per accentuare quell'atmosfera fiabesca (si pensi ai castelli di Bellinzona) che ormai ci è diventata così familiare da non percepirne più l’artificialità.
Naturalmente il discorso è anche più complesso di così. La dialettica luce-buio, fin dalla notte dei tempi, richiama alla mente la lotta fra bene e male. Nelle grandi storie, con il bene trionfa la luce; con il male, sono le tenebre (“l’uomo nero”) ad essere sconfitte.
Ma il buio non ha solo connotazioni e valenze negative. Così come lo cerchiamo disperatamente quando vorremmo, senza riuscirci, esplorare le costellazioni nelle notti cariche di fastidiosi riverberi luminosi, così ci rendiamo conto, nel profondo, che il buio è una dimensione fondamentale della nostra interiorità. È il luogo dove possiamo in ogni istante, con il semplice atto di chiudere gli occhi, ritrovare noi stessi. È la sostanza stessa del nostro essere. Nel buio siamo soli con noi stessi: tutto il resto — luoghi, persone, avvenimenti — restano fuori della soglia. Non a caso del buio spesso abbiamo paura: l'aver popolato di luci le nostre notti non è che una grande metafora della paura del vuoto che l'uomo rischia di incontrare quando è solo a confronto con se stesso. E anche l'accanimento a voler vivere di notte, a star fuori in compagnia fino all’alba, in fondo indica la volontà di sfuggire il rischio, ritrovandosi da soli in fondo alla notte, di avere di fronte il nulla.
E invece il buio può essere un alleato prezioso per entrare in sintonia con il mondo. «Quando sento dentro di me un disagio, un dolore, un conflitto – ha scritto Raffaele Morelli in Ciascuno è perfetto (Mondadori) – socchiudo gli occhi e dico al buio: fai tu. Con questo semplice esercizio ho imparato la psicologia della resa, della non opposizione. Quando provo un disagio mi dico: Cosa posso farci, io non sono nessuno, sono il buio che copre l'isola del mio lo. Mi arrendo e basta. Subito dopo arriva la pace. Significa che il buio ha fatto cessare la lotta con me stesso, la voglia di rimettere le cose a posto, che è la causa principale del perdurare del conflitto».