La disinformazione di massa

di Vittorio Bianchi

I social media hanno rivoluzionato, nel bene e nel male, il modo di fare informazione. Interattività, accessibilità ed immediatezza sono diventate le parole chiave del Web 2.0. Malgrado ciò, come spesso accade per ogni nuovo prodotto, un manuale d’uso potrebbe rivelarsi necessario.

Il presidente uscente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, nel suo ultimo incontro con la cancelliera Angela Merkel, ha dichiarato che il livello di disinformazione, facilitato dallo spaventoso sviluppo dei nuovi media, ha raggiunto livelli di diffusione tale, da mettere a repentaglio la stabilità dei nostri sistemi democratici. Chiama in causa addirittura il CEO di Facebook, Mark Zuckenberg, affermando che il recente risultato delle elezioni americane, che ha visto uscire vincitore il tycoon Donald Trump, sia dovuto in parte a quelle “bogus new stories”, storie false, inventate, che, però, sono state postate e condivise sui social media in maniera sempre crescente, soprattutto negli ultimi mesi di campagna elettorale.

Se, nella tappa più significativa del suo ultimo viaggio in Europa da presidente, Obama ha voluto mettere l’accento sul tema della disinformazione, richiamando, dunque, i professionisti del settore al rispetto del proprio codice deontologico, la faccenda è seria.

Effettivamente, riflettendoci, chi di noi, in una fascia d’età compresa fra i 15 e i 30 anni, non utilizza Facebook o Twitter come principale bacino di informazione? L’immediatezza di questi nuovi canali brucia sul tempo i farraginosi media tradizionali, troppo analitici e sconnessi da un pubblico che si muove a ritmo di tweet. Che si tratti di un attentato terroristico a Bruxelles, di un terremoto in centro Italia o dell’ultima sparata di Trump, le foto e le notizie arrivano nel giro di qualche secondo sul nostro cellulare, in maniera immediata, senza bisogno di controparte o contestualizzazione. Se poi si tiene conto dell’ormai dilagante sfiducia delle persone nei confronti dei media tradizionali, percepiti come strutture schierate con l’establishment, ecco che il gioco è fatto.

Certo, l’immediatezza dell’informazione, così come la possibilità di improvvisarsi giornalista o opinion maker, può essere un vantaggio. Si pensi alla nascita di movimenti politici che hanno intercettato i bisogni di coloro, che non si sentivano più rappresentati dai partiti politici tradizionali. Si pensi al ruolo dei social media nelle primavere arabe che, indipendentemente dal risultato finale, hanno generato mobilitazioni sociali, riuscendo a rovesciare radicati governi dittatoriali. Tuttavia, questo nuovo modo di fare informazione può diventare una lama a doppio taglio, se il fruitore finale non è in grado di discernere la notizia reale da quella fittizia, costruita, in alcuni casi, ad hoc, per promuovere controinformazione.

Uno studio recente dell’università di Standford, basato su un campione di 8.000 studenti, ha riscontrato che i teenager e gli studenti universitari, per antonomasia più avvezzi all’utilizzo delle nuove tecnologie, rischiano di essere uno dei target più sensibili. “Molte persone pensano che, poiché i giovani sanno usare i social media, sono egualmente bravi a giudicare quello che c'è scritto - afferma Sam Wineburg, l’autore principale - ma il nostro lavoro mostra che la realtà è opposta". L’82% del bacino degli intervistati non è per esempio stato in grado di discernere fra notizia fondate da quelle a contenuto sponsorizzato, mentre, fra gli altri inghippi, circa un quarto non è stato in grado di distinguere un profilo fake di Fox News rispetto a quello ufficiale.

L’informazione plasma in maniera consistente la nostra comprensione della realtà. Questa tendenza, dunque, rischia di avere soprattutto ripercussioni negative sullo sviluppo delle nuove generazioni. La polarizzazione sociale emergente ne è testimone.

Se è vero che il progresso non può essere arrestato, è anche vero che per sfruttarne il potenziale sarebbe opportuno promuovere percorsi di responsabilizzazione che mirino allo sviluppo di maggiori capacità critiche e analitiche nei confronti di quello che leggiamo. Questo toccherebbe in prima persona il settore educativo e i suoi promotori, non ultime le famiglie. Tecnicamente parlando, invece, l’algoritmo che regola i meccanismi di funzionamento di Facebook, secondo cui vengono proposte sulle nostre bacheche solo quelle opinioni combacianti al meglio con la nostra linea di pensiero o con i nostri interessi, dovrebbe essere messo in discussione.

In ultima analisi, anche i giornalisti dovrebbero mettere in campo nuove strategie di comunicazione. La diffidenza dilagante nei confronti dei media tradizionali, fattore rilevante che ha mosso ampi strati della popolazione verso i cosiddetti “voti di protesta”, dovrebbe far riflettere. Un certo tipo di informazione, più equilibrata, più reale, meno urlata, meno intellettualoide e più in linea con le istanze popolari potrebbe rappresentare, forse, una via d’uscita.

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