La pubblicità, il giornalismo,  le tasse di Facebook e l’era  delle “Fake News”

di Nico Tanzi

È ormai un fatto che la diffusione sempre più massiccia di internet e dei social media stia mettendo in difficoltà i media tradizionali. In molti, soprattutto i più giovani, addirittura si informano solo online, non leggono i giornali, non ascoltano la radio, guardano la TV più sullo smartphone o sullo schermo del computer che nel salotto di casa. Gli investimenti pubblicitari si regolano di conseguenza.

In Italia nell’ultimo anno la stampa ha perso il 5,6% della pubblicità, a beneficio della pubblicità online che invece è cresciuta dell’8%. La TV (che da sempre domina il mercato con una quota che sfiora il 50%, e lo supera se si aggiunge la radio) ha guadagnato a sua volta un 5,4%. Cifre importanti, ma soprattutto la conferma di una tendenza che va avanti da anni. E la tendenza è globale. Un panorama analogo, infatti, si delinea nel mercato mediatico svizzero. Qui tradizionalmente a dominare è la stampa, con una buona metà del fatturato dei media d’informazione. Ma negli ultimi cinque anni, pur restando complessivamente forte, la stampa ha perso un quarto dei suoi introiti pubblicitari. A crescere (leggermente) sono state solo le testate gratuite. Anche la TV è cresciuta di pochissimo. A fare passi da gigante, invece, è stata ancora una volta la pubblicità online. Come ovunque. Ma cosa significa tutto ciò in concreto? Perché dovrebbe preoccupare? In fondo –penserà qualcuno – si tratta solo di spostare gli investimenti dai “vecchi” media ai nuovi. Dalle pagine di carta a quelle elettroniche; magari gestite dalle stesse testate. Sarebbe bello se fosse così ma, ahimè, è una pia illusione.

Di fatto, quella fetta di fatturato pubblicitario che abbandona i media tradizionali per spostarsi sull’online si avvia per la gran parte verso poche (e note destinazioni). Che non sono le testate giornalistiche, vecchie o nuove che siano. Ma i grandi player internazionali del mercato di internet: Google e Facebook in testa. Con un effetto collaterale non evidente a prima vista, ma di fatto significativo: con la migrazione della pubblicità dai media locali a motori di ricerca e social network, sempre più denaro abbandona i “Paesi d’origine” per volare verso altre destinazioni (una in particolare: l’Irlanda, la cui fiscalità “soft” ha attratto negli ultimi anni un gran numero di colossi internazionali). In Italia, a fronte delle decine di milioni di utenti (e quindi di possibili fonti di reddito da pubblicità), Facebook paga meno tasse di uno studio dentistico mediamente affermato. Quattro colossi come Apple, Google, Facebook e Amazon hanno versato nel 2015, messi assieme, meno di 15 milioni di euro in imposte.

Ma torniamo all’advertising. Secondo una stima dell’agenzia di consulenza Magna Global, nei prossimi cinque anni la pubblicità online crescerà di circa la metà, la TV perderà terreno, ma sarà soprattutto la stampa a trovarsi in difficoltà: si ritroverà infatti, da qui al 2021, con le entrate pubblicitarie praticamente dimezzate. Le conseguenze non sono soltanto quelle relative alla sopravvivenza o meno delle testate di informazione, al mantenimento o meno dei posti di lavoro. Questo scenario presenta risvolti altrettanto preoccupanti per la democrazia stessa. Il dubbio più problematico si racchiude in una semplice domanda: chi potrà permettersi di fare del lavoro giornalistico serio e approfondito? All’orizzonte si vede nero. E solo una riflessione approfondita sul ruolo dei media nel dibattito pubblico, e sulla sostenibilità a medio-lungo termine del lavoro giornalistico e sul giornalismo d’inchiesta, potranno evitare che quell’orizzonte prenda davvero consistenza. Se non si vuole finire in un mondo dominato da Fake News e “fatti alternativi”.

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