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di Viviana Pansa

Non si arresta l'ondata populista e anti-Unione Europea cresciuta con il malessere sociale accumulatosi negli anni della crisi economica e definitivamente esploso con l'aumento dei flussi migratori verso il continente.

L'esito delle elezioni tedesche, oltre alla riconferma per il quarto mandato della cancelliera Angela Merkel, ha reso evidente la difficoltà per il suo partito, la Cdu, di ritrovare un equilibrio di governo, visto il rifiuto della Spd – che con il 20% dei voti tocca il più basso risultato di sempre – di proseguire la “grande coalizione”, ma soprattutto visto il 13% dei consensi incassati da Alternative für Deutschland, il partito euroscettico che ha conquistato 92 sui 700 seggi del Bundestag. La flessione di Cdu – meno 8% rispetto alle precedenti elezioni – e Spd – meno 4 punti percentuali – è andata tutta a favore all'ultradestra nazionalista di Afd, diventata ora la terza forza politica della Germania.

Preoccupanti segnali di deriva estremista arrivano però in queste ultime settimane anche dall'Austria. Dopo il sospiro di sollievo emesso all'indomani della vittoria – di strettissima misura - del verde Alexander Van Der Bellen sull'ultradestra guidata da Norbert Hofer alle presidenziali di fine 2016, il partito delle Libertà, ora guidato da Heinz-Christian Strache, è il secondo partito del Paese – con il 27% dei consensi, - dietro ai popolari del giovane leader Sebastian Kurz, che ha conquistato il 31,4% dei voti. Nel corso degli ultimi mesi però, il Partito popolare austriaco – tradizionalmente moderato - ha subito una sorta di trasformazione genetica, adottando molti dei messaggi – xenofobi ed anti-islamisti - di Strache. La sua vittoria si deve così più al fatto di aver catturato voti molto più orientati a destra di quanto avvenisse in passato. Bersaglio della campagna elettorale dell'erede di Jörg Haider, che fece ottenere al partito alle elezioni del 1999 il miglior risultato di sempre provocando la reazione di molti governi europei – che adottarono allora sanzioni diplomatiche per osteggiare tale esecutivo, - anche il Proporzsystem, “il sistema di spartizione” impuntato ad un'altra “grossa coalizione”, quella tra socialdemocratici e popolari austriaci, accusati di spartirsi il potere invece che di badare agli interessi nazionali. L'alleanza che si profila oggi invece, tra popolari e liberali, è così spostata a destra da apparire inquietante.

L'Europa tuttavia questa volta non ha reagito, forse rassegnata a questo vento di destra che spinge ancora a favore dell'autodeterminazione delle piccole patrie, dalla Brexit e via via a scendere, si veda il caso della Catalogna o i recenti referendum sull'autonomia celebrati nelle Regioni italiane di Lombardia e Veneto. Una rassegnazione che sembra essere anche alla base dell'idea formulata dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, nella lettera recentemente inviata ai leader europei in vista del Consiglio di fine ottobre. Tusk prospetta infatti su temi particolarmente divisivi la possibilità di stabilire una “cooperazione rafforzata” tra Paesi concordi, evitando così lunghe e – il più delle volte – sterili discussioni. “Serve un approccio che non impedisca ai governi di andare avanti in aree specifiche pur lasciando la porta aperta a chi si vorrà unire successivamente. L'unità – scrive ancora Tusk - non può essere una scusa per la stagnazione, ma al tempo stesso l'ambizione non può portare a divisioni”.
La verifica sul campo di questa strategia appare però ancora rinviata, calendarizzando il più avanti possibile i temi più controversi, come la riforma dell'eurozona o la politica migratoria, proprio mentre arriva il sì dell'Europarlamento alla proposta di riforma del regolamento di Dublino, con lo stop al criterio del primo approdo per i richiedenti asilo e il ricollocamento automatico dei migranti, sanzionando chi viola il patto. Le sterili discussioni per ora accompagnano i negoziati sulla Brexit, ancora in bilico tra il dentro e fuori, a distanza di più di anno dal referendum.

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