Licenziamenti illegittimi e dintorni... l’era della reintegra è davvero conclusa?

di Paola Fuso Cappelania

Per capire l’evoluzione dell’istituto della reintegra è utile sintetizzare i ragionamenti della giurisprudenza. Ci si riferisce al licenziament0 per motivi oggettivi e alla alternativa reintegra/indennità economica spettante al lavoratore.

Le vicende hanno per lo piu’ riguardato lavoratori che, assunti nel giugno 2015, avevano impugnato il licenziamento intimato per motivi oggettivi chiedendo al Giudice di accertare, in via principale, la natura discriminatoria dell’atto datoriale o, in via subordinata, l’insussistenza del motivo economico. In entrambi i casi i lavoratori chiedevano la reintegra. Nessuno si costituiva per la Società che restava contumace.
Conclusa l’istruttoria orale, il Tribunale accoglieva solo in parte il ricorso dei lavoratori, escludendo la natura discriminatoria del licenziamento, per non aver i dipendenti dimostrato che l’intento discriminatorio avesse avuto efficacia determinante esclusiva.
Quanto, invece, alla soppressione del posto di lavoro, se da un lato i lavoratori non avevano contestato in modo specifico tale circostanza, dall’altro, il datore di lavoro rimasto contumace non aveva assolto l’onere di dimostrare l’impossibilità di un utile reimpiego dei dipendenti. Ciò nonostante, applicando il nuovo regime introdotto dal D.lgs. 23/2015, il Giudice condannava la Società al solo pagamento di un’indennità economica, dichiarando estinto il rapporto di lavoro. Invero, il licenziamento per motivo economico è stato per lungo tempo considerato legittimo non solo quando sussistevano le ragioni economiche, organizzative e produttive ad esso sottostanti, ma anche quando il datore di lavoro verificava che non esistevano, al momento del licenziamento e con riguardo all’organizzazione aziendale complessiva, altre mansioni utili e attribuibili al lavoratore ritenuto in esubero. Entrambe le circostanze, poi, dovevano essere dimostrate in giudizio dal datore.
L’obbligo di repêchage è, quindi, una “creatura” della giurisprudenza italiana che trovava origine nella previgente formulazione dell’Art. 18 St. lav. Nessun dubbio, peraltro, almeno sino all’estate del 2012, che in caso di mancato adempimento dell’obbligo di ricercare una possibile e utile ricollocazione il lavoratore potesse chiedere la reintegra. Il regime sanzionatorio correlato al mancato adempimento dell’obbligo di repêchage ha, però, iniziato a sgretolarsi all’indomani dell’entrata in vigore della c.d. Riforma Fornero (L. 92/2012), quando l’Art. 18 St. lav. è stato modificato con l’introduzione di due diversi regimi di tutela applicabili: la tutela reintegratoria c.d. attenuta e la tutela esclusivamente indennitaria, da 12 a 24 mensilità.
Ancor più di recente, il legislatore è di nuovo intervenuto modificando il regime sanzionatorio applicabile ai licenziamenti intimati ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, prevedendo l’applicazione della sola tutela indennitaria in caso di illegittimo licenziamento per motivo economico (cfr. Art. 3 e 9, D.lgs. 23/2015). Tuttavia, all’attenuazione del regime sanzionatorio applicabile, si è contrapposto un “aggravamento” del contenuto dell’obbligo di repêchage. Se, da un lato, pare oggi difficile ipotizzare che, con il nuovo regime delle c.d. tutele crescenti, le conseguenze discendenti dalla violazione dell’obbligo di repêchage si possano spingere oltre una tutela di carattere puramente economico, è però altresì vero che – per i dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015 - il mancato adempimento dell’onere di repêchage potrebbe ancora avere delle conseguenze rilevanti per i datori di lavoro.
In queste ultime ipotesi, infatti, i Giudici potranno ancora applicare la tutela risarcitoria “pesante” prevista dall’Art. 18, comma 5, St. lav., sanzione che sarebbe “il portato” della modifica al contenuto dell’obbligo di repêchage a carico del datore di lavoro.

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