di Michele Caracciolo di Brienza

La Catalogna ha sette milioni e mezzo di abitanti. Secondo l’INE (Instituto Nacional de Estadística), l’equivalente dell’Istat in Italia, il contributo di questa regione al PIL spagnolo è del 18.8% nel 2014. Il primo ottobre è la data stabilita per il referendum per l’indipendenza della Catalogna. Si tratta di un referendum incostituzionale a cui il governo di Madrid ha posto tutti gli ostacoli previsti dallo stato di diritto. Ma come si è arrivati a questa situazione che rischia di degenerare?

Durante l’epoca franchista (1939-1975) tutte le regioni spagnole subirono l’annullamento delle libertà democratiche, la censura della stampa, la persecuzione e la proibizione dei partiti politici ad eccezione della Falange spagnola. Inoltre, si soppressero tutti gli statuti di autonomia e s’impose lo spagnolo come unica lingua ufficiale. L’uso del catalano venne ridotto nell’amministrazione pubblica, nei mezzi di comunicazione, a scuola e nell’università, nella segnaletica pubblica.
Nel 1977 la Spagna ritorna alle urne. La transizione dalla dittatura alla democrazia avviene in modo piuttosto sereno dopo la morte del Caudillo. Tuttavia, è di questo periodo la nuova costituzione che ha fornito il bacino di coltura per questa devianza identitaria e indipendentista. Lo statuto di autonomia della Catalogna stabilisce all’articolo 6.1 che: “La lingua propria della Catalogna è il catalano. Come tale, il catalano è la lingua di uso corrente e preferenziale delle amministrazioni pubbliche e dei mezzi d’informazione pubblici della Catalogna, ed è la lingua normalmente usata per veicolare l’insegnamento e l’apprendistato”. Il Tribunale Costituzionale spagnolo ha dichiarato incostituzionale e quindi nulla l’espressione “e preferenziale” con la sentenza 31/2010 del 28 giugno 2010. Il fatto che la Catalogna abbia il diritto di stabilire i propri programmi scolastici è la prima grande causa di una frattura identitaria che non trova soluzione.
Il referendum del primo ottobre non ha fatto altro che esasperare i toni nel parlamento di Madrid tra gli stessi politici di origini catalane. Albert Rivera, leader del partito Ciudadanos, ha dichiarato durante una conferenza stampa a Madrid il 20 settembre scorso: “Da anni in Catalogna sopporto le minacce e gli insulti dei militanti di Esquerra republicana [N.d.r. partito di sinistra che sostiene l’indipendenza]. Vedo che i deputati del mio partito all’opposizione nel parlamento catalano non sono rispettati. Dopo tutto questo io non sono disposto a tollerare lezioni di democrazia da questi golpisti”.
Il 5 luglio scorso a Madrid durante il convegno organizzato dal gruppo editoriale Vocento intitolato «40 años de democracia», a cui hanno partecipato per la prima volta insieme tre ex-presidenti del consiglio spagnolo: Felipe González, José María Aznar e José Luis Rodríguez Zapatero, Aznar ha dichiarato: “[T.d.r.] Io difendo la sovranità spagnola. E questa sta nel popolo spagnolo, non in diciassette popoli. Si mette a rischio un principio costituzionale. Prima che si rompa la Spagna, si romperà la Catalogna. Non esiste un conflitto tra spagnoli e catalani, c’è un problema di alcuni catalani. Faremmo bene a difendere quei catalani che amano la legalità”.
I manifestanti a Barcellona mostrano cartelli che accusano il governo di Madrid di attentato alla democrazia. Nulla di più falso. La questione dell’indipendenza catalana ha radici profonde e riemerge oggi non certo per via di un’oppressione da parte del governo di Madrid. Riemerge piuttosto come arma di distrazione di massa da parte della classe dirigente catalana: una delle più corrotte d’Europa.
Il quotidiano El Mundo del 10 luglio scorso riporta l’indagine giudiziale di un versamento in contanti di 1,8 milioni di euro in un conto di una banca di Andorra fatto dal vicepresidente del Barça e amico della famiglia Pujol, Carlos Vilarrubí. Questo fatto pone di nuovo al centro dell’attenzione pubblica che la corruzione in Catalogna è un pozzo senza fondo. I seri dubbi della polizia sulla provenienza di quel denaro rivelano che si sta stringendo il cerchio attorno al potente imprenditore catalano, la cui carriera iniziò negli anni di apogeo di Jordi Pujol, già presidente della Catalogna. Il nazionalismo cerca di distrarre la società catalana con l’oppio dell’indipendenza, tuttavia la giustizia continua il proprio lavoro nello smascherare le reti di corruttele catalane.
Nel maggio 2017, la Unidad de Delincuencia Económica y Fiscal (Udef) della polizia giudiziale ha affermato in un rapporto pubblico riportato dall’agenzia EFE che “la famiglia Pujol-Ferrusola ha avuto un beneficio economico non giustificato di 69 milioni di euro nei suoi conti di Andorra dal 1990, quando iniziarono operazioni per occultare grosse somme di origine sconosciuta”.
I catalani non sono un popolo oppresso. La Catalogna gode di larghe autonomie regionali. Questo referendum è il culmine di una politica di fumo negli occhi di una regione sistematicamente corrotta in cui tangenti fino al 20% del costo di un opera pubblica erano pagate al partito al governo della Generalitat di Catalogna. L’ultima condanna (l’imprenditore Antonio Salguero) risale al luglio 2017. Due anni di carcere.