di Tatiana Crivelli*


A cosa servono le università? A questa domanda cerca di rispondere un recente saggio di Stefan Collini (What Are Universities For?, London, Penguin Book, 2012) che prende le mosse da un paradosso rilevante per il nostro tema: se, da un lato, oggi le università sono numerose e ben finanziate, dall’altro la loro immagine pubblica si è notevolmente deteriorata. In tutta Europa, nel momento stesso in cui il numero di studenti e studentesse universitari è sette volte maggiore di quanto fosse solo una generazione fa, si assiste anche a «uno scetticismo senza precedenti circa i benefici (intellettuali e materiali) di un’educazione universitaria» (ivi, p. 12) e mentre da alcuni le università sono elogiate come le punte d’avanguardia nello sviluppo tecnologico ed economico, da altri vengono accusate di guardare al passato e di essere istituzioni autoindulgenti ed elitarie.

Incertezza identitaria
Questa situazione di incertezza identitaria tocca poi in modo specifico le discipline umanistiche che rispondono in modo meno immediato, o non rispondono affatto, spesso anzi criticandole, alle sollecitazioni strumentali del mercato, e il cui lavoro – un lavoro di lunga lena e che tende verso conclusioni in forma aperta – è più difficile sia da spiegare, sia da conciliare con esigenze esterne di immediata utilità. In altre parole: anche se le scienze umane hanno costituito per secoli l’asse portante della tradizione universitaria europea, oggi sono proprio queste discipline che vengono maggiormente investite di criticità e soggiacciono con più evidenza a un senso di insicurezza, quando non addirittura di precarietà, essendo chiamate a giustificare la loro esistenza, e a farlo in base a criteri di valutazione essenzialmente quantitativi.
Nel caso dell’italianistica, e nel caso specifico dell’italianistica elvetica, a questo stato di cose si aggiunge un secondo, peculiare paradosso: mentre da un lato il governo federale assume con coraggio il compito di rappresentare politicamente i diritti delle minoranze linguistiche e culturali del nostro paese, adottando misure e strumenti innovativi e flessibili come la legge e l’ordinanza sulle lingue, nel caso delle cattedre universitarie dedicate alle lingue nazionali lo stesso si appella poi alla sovranità cantonale – per cui il governo rispetta largamente le autonomie cantonali e a loro volta i governi cantonali rispettano largamente l’autonomia dei loro atenei – col risultato di far ricadere sulla singola disciplina, nei singoli atenei, il compito di giustificare il proprio diritto ad esistere. Così, se nessuno mette in dubbio che la politica federale possa e debba ad esempio avere un ruolo nel promuovere, anche con ingenti finanziamenti, la formazione medica, creando nuovi posti di studio nelle facoltà di medicina svizzere, nel contempo, il gioco delle autonomie fa sì che la responsabilità relativa ad un altro bene comune, ovvero la salute del plurilinguismo elvetico, venga invece tendenzialmente delegata, secondo un principio di territorialità, alle autorità dei Cantoni in cui le lingue sono ufficialmente rappresentate. In tal modo, considerati essenzialmente espressione di una “Fremdsprache”, i dipartimenti di italianistica delle università svizzere in territorio non italofono, ossia sette su otto, non hanno il privilegio di poter intervenire, se non attraverso le singole voci dei cattedratici o delle cattedratiche, e dunque in modo occasionale e non istituzionale, nel fondamentale dibattito oggi in corso in Svizzera sullo statuto del nostro plurilinguismo.

Una lenta ma costante erosione del potenziale accademico
Questo stato di cose si sta di fatto traducendo, da almeno un decennio, in una lenta ma costante erosione del potenziale accademico della nostra disciplina, con tagli di cattedre nella peggiore delle ipotesi e, nella migliore, con sostituzioni degli ordinariati con posti di professore assistente (cosa che implica una sostanziale riduzione delle ore di insegnamento da un lato e, dall’altro, riduce la dotazione di personale che afferisce delle cattedre, privando dunque gli istituti della possibilità di immettere nel percorso accademico giovani ricercatori e ricercatrici). Ma poiché, come annotava Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone, «Ne’ guai non ci vuol pianto ma consiglio», in questa occasione desideriamo – e in quanto vicepresidente del Forum per l’italiano in Svizzera ho il privilegio di parlare a nome di tutte le colleghe e i colleghi delle Università svizzere – uscire precisamente da questa logica dell’isolamento e presentare un quadro d’insieme delle attività che svolgiamo, su tutto il territorio elvetico, ognuno con le sue competenze e le sue peculiarità ma tutti e tutte con il medesimo, inesausto impegno e con un esito di cui, crediamo, c’è di che essere giustamente orgogliosi. L’obiettivo non è dunque, per una volta, quello obbligato di giustificare la nostra esistenza (un esercizio, questo, che ciascuno e ciascuna di noi svolge abitualmente nelle singole sedi di appartenenza), ma quello, molto più gratificante, di illustrare la complessità del nostro lavoro e, con essa, mostrare la necessità che nell’ambito della promozione dell’italiano in Svizzera le cattedre si trasformino in interlocutori attivi, superando il falso pregiudizio che vede l’accademia distaccata dal mondo reale. La speranza è quella di avviare un colloquio che si riverberi in un’altrettanta buona pratica istituzionale, con l’obiettivo comune di promuovere ad ogni livello la lingua e la cultura italiane come parte integrante dell’identità, della cultura e della struttura socio-economica della Svizzera.

Presenti su territorio elvetico da oltre un secolo
Cominciamo col dire che – ad eccezione della sede luganese, che compie quest’anno dieci anni – le cattedre di italianistica sono presenti su territorio elvetico mediamente da oltre un secolo (116 anni) e che, secondo i dati raccolti per questo incontro e riferiti all’autunno 2015, si occupano, nei loro programmi di Bachelor, Master e Dottorato, della formazione di quasi 900 (867) studenti e studentesse. Quasi 400 (383) di loro studiano nelle quattro università della Svizzera tedesca (Basilea, Berna e Zurigo e San Gallo), oltre 300 (331) nelle tre sedi della Svizzera francese che, dopo la soppressione della Cattedra di Neuchâtel nel 2005, ancora offrono questo insegnamento (ovvero Friburgo, Ginevra e Losanna) e 150 ca. (153) presso l’Università di Lugano. A queste cifre potremmo a buon diritto aggiungere almeno un altro centinaio di persone, fra quelle iscritte ai corsi extracurricolari del Politecnico di Zurigo e quelle che, avendo l’italiano come lingua di riferimento, frequentano il Master di traduzione e interpretariato della Scuola universitaria professionale di Winterthur, mentre non è possibile dare indicazioni sul nutrito pubblico di coloro che, iscritti/e in altri percorsi di studio, frequentano per libera scelta corsi complementari di italianistica. Insomma: anche rimanendo su stime minimaliste possiamo senz’altro dire che l’italianistica elvetica forma attualmente, all’interno dei percorsi di studio universitari, all’incirca un migliaio di persone, oltre quattro quinti delle quali in territorio non italofono.
L’importanza delle cattedre – in tutto 13 posti e mezzo a livello di ordinariato e straordinariato, e altri 13 a livello di professore associato, assistente o titolare, ripartiti su otto sedi – va tuttavia molto oltre al pur rilevante numero di studenti e studentesse che vi studiano e che andranno ad occupare in modo diffuso e articolato su tutto il territorio nazionale posti di lavoro da cui, a loro volta, propagheranno ad alti livelli di qualità la lingua e la cultura italiane. Infatti le cattedre di italianistica non formano esclusivamente docenti d’italiano per le scuole, bensì persone che trovano occupazioni in molti e diversi ambiti connessi all’elaborazione e alla comunicazione di contenuti culturali: dai mass media ai musei, in tutti i luoghi – e non sono pochi, e non escludono nemmeno l’anima bancaria e amministrativa della Svizzera – in cui lo straordinario valore della cultura di lingua italiana viene apprezzato e richiesto.
L’importanza delle cattedre, nella loro costellazione, risiede infatti, oltre che nella loro missione didattico-formativa, anche nella loro capacità di irradiazione esterna, nazionale e internazionale: da un lato le cattedre dialogano e cooperano tra di loro e con le realtà universitarie d’oltre frontiera e, dall’altro, entrano in stretta relazione con le istituzioni locali (politiche, culturali, scolastiche, economiche) e con un ampio pubblico residente nel territorio. Anche in questo caso, alcune cifre potranno illustrare, se non la qualità, certo l’ampiezza di questa disseminazione culturale: per quanto riguarda la formazione, oltre ad attività di scambio interne alla Svizzera, i programmi di italianistica intrattengono 141 accordi di mobilità studentesca all’interno dell’Europa, 97 dei quali con l’Italia; per quanto concerne le relazioni col territorio, basterà dire che negli ultimi cinque anni le cattedre hanno offerto oltre 400 manifestazioni e una sessantina di convegni su vari aspetti della lingua e della cultura italiana.

Il dialogo con le altre culture
La qualità del lavoro di ricerca scientifica delle cattedre di italianistica è infine attestata in modo evidente dalle loro collaborazioni a progetti europei e nazionali (ne abbiamo contate, per questa occasione, e sempre in relazione agli ultimi cinque anni di attività, 21 a livello europeo e 40 in Svizzera), dalla ricezione delle loro pubblicazioni scientifiche (ca. un migliaio in cinque anni, apparse in diversi paesi europei e negli Stati Uniti) e dalla loro capacità di mobilitare risorse a favore di imprese scientifiche di rilevanza internazionale (ca. 17 milioni di franchi, acquisiti, sempre nello stesso periodo, in Europa e in Svizzera per progetti di ricerca su temi che riguardano la lingua e la cultura italiana tout court o che ne valorizzano la dimensione specificamente svizzero-italiana). In una parola: le cattedre di italianistica elvetiche sanno cogliere al meglio i frutti di quel dialogo con altre culture che, sul suolo elvetico, si esprime nel contesto di un plurilinguismo davvero unico. E ciò è dimostrato sia dalla storia della disciplina, che in Svizzera è stata rappresentata da figure di grande rilievo in ogni sede, sia dalla vitalità, dalla qualità e dalla diversità con cui esse si mostrano oggi capaci di attrarre mezzi e forze altamente qualificate per la ricerca, nonché un pubblico studentesco plurilingue, nazionale e internazionale.
Dunque, se così stanno le cose – e spero che da questa seppur breve introduzione possa essere risultato un quadro meglio articolato e sufficientemente chiaro della nostra azione – allora l’importanza delle cattedre di italianistica nel loro insieme appare decisiva nel quadro della promozione e della diffusione della lingua e della cultura italiane, poiché le diverse sedi si fanno garanti, tramite la loro presenza, che è anche presenza storica ben radicata su tutto il territorio elvetico, di un’interazione culturale di grande qualità, con effetti di disseminazione immediati e benefici per la complessa identità plurilingue elvetica. E appare in modo evidente la necessità non solo di integrare da subito le cattedre in un dialogo costruttivo con gli attori della riflessione politica sullo stato dell’italiano in Svizzera, ma anche quella di non lasciarle sole a difendere, a livello locale e sulla sola base di esigenze di razionalizzazione economica, la loro ragion d’essere.

Ridurre i costi a spese dei risultati

La miglior razionalizzazione, infatti, non è certo quella che riduce i costi a spese dei risultati: e se tutte/i noi non possiamo che salutare la promozione dell’eccellenza (qualunque cosa ciò significhi davvero), tuttavia faremmo sempre bene a tenerci care le eccellenze che nascono dalla valorizzazione della qualità dell’esistente, soprattutto quando l’esistente è di qualità, e a diffidare, invece, delle eccellenze costruite per decreto. Questo significa integrare le richieste e le esigenze del mercato con un adeguato sostegno alla preziosa diversità culturale svizzera; significa preferire a quelle strategie erosive di concentrazione e riduzione che si celano dietro più inermi diciture, quali “ottimizzazione” e “consolidamento”, una politica globale di sostegno e di promozione degli studi italiani, al di qua e al di là delle alpi, riconoscendo il legame vitale di ogni sede universitaria con la cultura del territorio in cui essa opera e, insieme, il plusvalore generato dall’interazione fra le singole sedi, in un sistema proficuo e ben collaudato di relazioni e di specializzazioni. Da questo sistema scaturisce un flusso che penetra poi, in modo capillare, in tutto il tessuto nazionale, e nutre e cura la nostra terza lingua nazionale, i suoi valori e i suoi saperi.
Proprio l’importanza di questo flusso capillare, delicato e complesso, è il motivo per cui è bene ricordare, in chiusura, che in ambito universitario non si può né costruire, né distruggere, né delocalizzare senza che ciò comporti conseguenze sull’insieme del sistema e sul suo buon andamento globale. C’è infatti una differenza di fondo fra produrre ricchezza materiale e produrre ricchezza di saperi; e questa differenza ce la spiega ancora una volta ottimamente proprio la letteratura. Mi piace dunque chiudere sulle parole di quel Giacomo Leopardi che ho citato in precedenza e che, dall’ultima delle Operette morali, offro come memento anche a coloro che regolano azione e pianificazione nel campo della politica universitaria, affinché abbiano ben presente che «le cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa somma».


Le cattedre di italianistica elvetiche presentano regolarmente le loro attività (manifestazioni, convegni e pubblicazioni) sul loro sito web ufficiale: www.italianistica.ch. Un opuscolo informativo è inoltre scaricabile in formato pdf dal sito dell’Intergruppo parlamentare italianità.


*Professoressa ordinaria di Letteratura Italiana presso il Romanisches Seminar dell'Università di Zurigo


Nella foto di pag 31 (della prof Tatiana Crivelli) inserire:
Foto: ©Sabine Biedermann (www.sabinebiedermann.com)