di Enrico Perversi

L’invecchiamento della popolazione offre opportunità che le aziende devono cogliere attraverso diverse modalità di gestione


Il dibattito sulle generazioni in azienda prosegue da parecchi anni ed è incentrato sulle diversità di cultura, linguaggio ed aspettative; si discute di come i baby boomer, nati dopo la seconda guerra mondiale fino ai primi anni ’60, debbano integrare le generazioni successive ed anche passare le consegne, qualora siano ancora in azienda. Purtroppo sono molte le persone, anche molto qualificate, che invece hanno dovuto re-inventarsi professionalità e lavoro che non hanno più trovato nelle aziende che li hanno espulsi.

Più di recente il dibattito si è ulteriormente arricchito perché la crisi ha evidenziato fenomeni nuovi dovuti sia all’azione governativa sia a quanto avviene nel mercato del lavoro. L’innalzamento dell’età pensionabile ed il fatto che per la prima volta le nuove generazioni non fruiscano di redditi migliori dei loro genitori fa sì che molte persone si siano trovate a sperimentare e sviluppare una vera e propria competenza su come gestire la transizione tra il lavoro in azienda e quello più autonomo e con modalità più flessibili e sconosciute precedentemente. È significativo che gli ultimi dati sull’occupazione segnalino che il recente incremento sia costituito in maniera rilevante da ultracinquantenni più che da giovani.

Dopo l’espulsione selvaggia avvenuta per circa tre lustri a partire dall’inizio del nuovo secolo, oggi si deve prendere atto che ci saranno sempre più persone senior nel mondo del lavoro e dovranno essere affrontati i temi della riqualificazione professionale e dei tempi di lavoro che dovranno essere adattati.
Un esempio anche divertente che mi è capitato di vedere è rappresentato dal film Uno stagista inaspettato dove il settantenne pensionato Robert De Niro si reinserisce in una start up della moda generando un valore sorprendente per la fondatrice Anne Hathaway nel supportarla a superare crisi aziendali e personali. Si tratta di una favola a lieto fine tipica del cinema di evasione che tuttavia mostra con chiarezza un sacco di stereotipi presenti in tutte le aziende e nella società.

Odile Robotti su Harvard Business Review esamina il tema prendendo spunto dalla realtà giapponese che lo ha affrontato prima di noi ed introduce il concetto di smart aging. L’invecchiamento della popolazione non è necessariamente un problema per la società ma fornisce opportunità, perché mette a disposizione maggiori risorse e crea un nuovo segmento di mercato, inoltre anziani attivi mantengono la propria autonomia più a lungo con evidenti benefici per loro, per le famiglie e per la società. Le organizzazioni devono avviare una evoluzione e superare alcuni luoghi comuni, il primo e più rilevante è quello che afferma una contrapposizione tra posti di lavoro per anziani e giovani; il punto non è questo e le ricerche lo confermano, la quantità di lavoro richiesta non è fissa, l’impiego di lavoro crea crescita nelle dimensioni globali dell’economia generando ulteriore occupazione. Ma ci sono altri aspetti da considerare, ricerche americane mostrano che la presunta minore capacità di apprendimento degli anziani è un mito come lo è anche il presunto livello inferiore di prestazioni, la dimestichezza con le tecnologie informatiche è citata molto frequentemente come un fattore gravemente limitante, ma siamo proprio sicuri che non sia più che compensata da altri punti di forza quali la maggiore affidabilità ed il maggiore equilibrio?
Certamente è necessario creare condizioni in cui le potenzialità e le caratteristiche peculiari di lavoratori anziani siano valorizzate utilizzando anche appropriati programmi di riqualificazione, a questo proposito è molto interessante l’esempio della Vita Needle Company di Needham Massachusetts che intenzionalmente assume persone anche oltre i 65 anni di età ritenendole più precise e affidabili nella produzione di manufatti di acciaio inossidabile. (www.vitaneedle.com)
La mentorship dei senior ci aiuterà ad uscire dalla stagnazione?