Girato interamente in Yiddish, linguaggio in disuso nel cinema da decenni, il film segue le vicende di un commesso di un negozio di alimentari gentile e sfortunato, mentre si sforza di allevare ed educare suo figlio Rieven. Purtroppo, secondo la tradizione, poiché sua moglie Leah è morta, a Menashe è proibito crescere il figlio da solo. Così Rieven viene adottato dal severo zio (fratello della moglie), lasciando Menashe solo e disperato.
All’interno della comunità ebrea ultra ortodossa di Brooklin, Menashe è una sorta di pecora nera: non indossa la tradizionale giacca, non porta il cilindro ma solo la papalina, e persino i suoi payot, le classiche treccine lasciate lunghe davanti alle orecchie per interpretazione dell’ingiunzione biblica di non rasare gli angoli della testa, vengono ogni giorno pazientemente raccolti e legati dietro alle orecchie risultando appena visibili.
Vive la fede a modo suo, Menashe, forse inadatto alla rigidità dei costumi ortodossi, eppure profondamente credente e immerso in una comunità che parla yiddish come prima lingua e che sui dettami della Torah basa tutta la propria vita. Tuttavia, anche se Menashe sembra complicarsi la vita ogni giorno di più, il suo rabbino gli concede di passare una settimana con Rieven, prima dell'anniversario della morte di Leah, offrendogli la possibilità di dimostrare di essere un uomo di fede e un padre affidabile.
Menashe è un film piccolo e sincero, che riesce a mettere in scena, un’acuta esplorazione delle vie della fede, dei rapporti umani e delle dinamiche familiari.