di Vittoria Cesari Lusso
Mi capita non di rado di meravigliarmi per la ricchezza di linguaggi a disposizione di noi umani fin dalla nascita per interagire con l’ambiente (elefante più o meno invisibile). Il pianto è prima lingua di cui il cucciolo umano si serve per comunicare i suoi bisogni vitali e per sfogare le eventuali tensioni. Il pianto non è un insieme di semplici strilli ma è un vero e proprio canale comunicativo: mamma e papà hanno interesse a imparare a decifrarlo il più presto possibile. Gli studiosi hanno analizzato e descritto ben otto diversi tipi di modalità di pianto, in sintonia con gesti e movimenti, a seconda del messaggio che il bebè ha bisogno di esprimere: ho fame, ho sonno, ho bisogno di compagnia, ho bevuto troppo latte, ho male al pancino, ho caldo, ho freddo, sono malato. Per distinguerli occorre non solo decifrare le caratteristiche “sonore” dello strillo, ma osservare altresì il linguaggio del corpo. Prendiamo ad esempio il pianto per fame che è il più frequente. Il primo segnale di appetito si manifesta quando il bambino comincia a fare il gesto di succhiare con le sole labbra, poi portando alla bocca il dito o il pugnetto, successivamente strillando con crescente intensità. Da grande per esprimere la stessa cosa girerà per la cucina domandando “È pronto? Cosa si mangia?”. Ora non ha altra scelta che il ricorso a mimiche o, se il bisogno non viene capito, all’esibizione del suo talento di urlatore.
Man mano che il bambino cresce si appropria della magnifica facoltà di esprimersi a parole, in una o più lingue! (È acquisito ormai che imparare in giovane età più lingue è un enorme vantaggio). La parola è una grande conquista. Essa comporta però anche uno svantaggio particolare: chi ti sta vicino smette di cercare di indovinare i tuoi segnali e bisogni e comincia ad aspettarsi che tu parli: “Dimmi cosa c’è che non va?”; “Perché fai il muso?”; “Perché non spieghi cosa ti capita?”. Ebbene spesso i bambini non hanno nessuna voglia di raccontare le proprie contrarietà, per tre motivi: il loro cervello è ancora immaturo sul piano delle facoltà logiche; sanno che in fatto di schermaglie verbali rischiano di essere perdenti nella tenzone con gli adulti; l’emotività li porta a prediligere il broncio e il vittimismo.
Con l’adolescenza la voglia di disquisire non fa grandi progressi. In casa di solito ci si limita al minimo sindacale in fatto di parole spese con gli ascendenti. Con gli amici va meglio, ma sempre più il linguaggio verbale è rimpiazzato da abbreviazioni e immagini, che non mancano però di una certa creatività. Per comunicare con gli amici si ricorre sempre più alle emoticon. Unendo più faccine assieme si riesce persino a trasmettere un “pensiero complesso” quale ad esempio “Che rottura lo studio!”. In che modo? Associando l’immagine di un libro con una faccina con la lacrima sulla guancia. L’aspetto positivo delle emoticon è che almeno i ragazzi e le ragazze in qualche modo hanno imparato a riconoscere alcuni tipi di emozioni. La comunicazione tra amici si arricchisce così di informazioni sugli stati d’animo, anche grazie al carattere di universalità culturale delle principali emozioni di base. Prima di internet per acquisire tale competenza si sarebbe dovuto leggere un manuale di psicologia, e in pochi l’avrebbero fatto. Le faccine nate come supporto alla comunicazione stanno però diventando sostituti delle parole. Alla domanda ad esempio “Mi ami?” basta rispondere con una faccina con due cuoricini al posto degli occhi. Ritorno alla preistoria? Addio alla poesia?
E gli adulti? Se per adulto si intende colui che è capace di esprimersi in modo autentico ma rispettoso, di argomentare piuttosto che gridare, di usare uno stile di linguaggio chiaro e curato, di scrivere testi più lunghi dei 140 caratteri previsti da Twitter, c’è da domandarsi se non stia diventando una specie in via di estinzione. In fondo il sogno di tanti adulti è restare eterni adolescenti, anche privilegiando forme giovanili di comunicazione fatte di immagini. Della comunicazione attraverso l’immagine fa parte anche il modo di agghindarsi. Ciò dalla notte dei tempi. Soltanto che in passato era più socialmente codificato: era facile distinguere dall’abito il maestro dall’allievo, il nobile dal contadino, l’artista dal funzionario. Oggi regna una certa omologazione, ma l’abbigliamento rimane comunque un formidabile linguaggio che permette di dedurre molti aspetti della persona, quali: la cultura di appartenenza (un burka o una minigonna non sono semplici scelte estetiche ma condensati di messaggi socioculturali), il conto in banca (borse e cinture Hermes non hanno solo lo scopo di servire da contenitori o impedire ai pantaloni di cadere ma forniscono informazioni sulla capacità di spesa dei proprietari), la propensione alla seduzione (profonde scollature e generose trasparenze oppure abiti castigati non sono unicamente modi diversi di vestirsi, ma messaggi…).