Un vecchio detto, attribuito a George Bernard Shaw, recita pressapoco così: “Le cose migliori della vita o sono illegali o immorali o fanno ingrassare”. Siamo stati educati, nei secoli, a controllare i nostri istinti, per non incappare nella “giusta” punizione.
Difficile dunque che, quando ci si accorga di aver accumulato grasso superfluo, non scatti automaticamente il pensiero che tutta quella ciccia sia una sorta di punizione che subiamo a causa dei nostri stravizi.
Se poi ci si mettono anche gli operatori del settore ad imporre divieti spiegando sommariamente che mangiare alcune cose “fa ingrassare” ma senza spiegare davvero perché, il quadro è completo. Ci sono addirittura in circolazione terapisti di chiara fama che insultano al telefono i propri assistiti urlando loro improperi, il più leggero dei quali è “ciccione”. Un bel carico da novanta che fa crollare definitivamente l’autostima, già fragile, di chi si trova in una situazione di disagio.
Come ho spiegato qualche mese fa in un articolo dedicato agli “sgarri”, questo meccanismo produce un circolo vizioso di limitazioni, cedimenti, sensi di colpa e nuove limitazioni ancora più restrittive delle precedenti, il cui risultato finale è un progressivo schiacciamento del metabolismo basale, che si abbassa ad ogni nuova restrizione nel disperato tentativo dell’ipotalamo di risparmiare energia, dal momento che non arriva abbastanza da mangiare.
I dati parlano chiaro: in quarant'anni in cui sono fiorite le più disparate diete ipocaloriche (1975-2015), la popolazione mondiale di maschi obesi è cresciuta quasi del 700%, quella delle femmine di circa il 400% (Lancet, aprile 2016). Insomma, forse è il momento di cambiare il modo con cui si affronta il problema, visti i deludenti risultati del passato.
Il nostro corpo accumula grasso di riserva per proteggere sé stesso in caso non arrivi abbastanza cibo o non si sia nelle condizioni di procurarselo. Teniamo conto che noi funzioniamo, a livello fisiologico, esattamente come i nostri progenitori cacciatori-raccoglitori del Paleolitico, in cui queste condizioni erano fondamentalmente tre: carestia, malattia o infortunio, stagione invernale.
Proviamo a fare un parallelo con la nostra epoca di abbondanza. Se ci mettiamo a dieta di restrizione, ossia ci costringiamo alla fame per settimane, il nostro ipotalamo legge “carestia” e fa in modo che il nostro corpo riduca i consumi e metta via sotto forma di grasso tutto il poco cibo che riceve. Se non ci muoviamo con regolarità o se mangiamo cibi che aumentano il nostro stato infiammatorio (zucchero, farine raffinate, ecc), il nostro ipotalamo legge “impossibilità di procacciarsi cibo per impedimento o malattia” e di nuovo abbassa i consumi e fa di tutto per accumulare grasso.
In definitiva, “stringere la cinghia” per settimane allo scopo di perdere chili, magari mangiando cracker di farina raffinata e pasta bianca, è comunque una strategia perdente, perché nonostante possa risultare in una diminuzione del numero sulla bilancia, si tratterà di un risultato temporaneo, frutto di sofferenze fisiche e psicologiche non di poco conto e per le quali il nostro organismo non mancherà di farci pagare il conto con gli interessi, come ha messo in luce lo studio citato sopra. Una penitenza decisamente eccessiva, anche in tempo di quaresima.
Innocenti saluti dalla vostra
Tatiana Gaudimonte