di Mirko Formenti
Quando ti ritrovi a due passi dal Colosseo e a tre dal Laterano non sono in molti a filartisi, anche se formalmente sei una basilica. Ecco perché forse non tutti, lungo il tragitto che unisce queste due attrazioni turistiche maggioritarie, si fermano a gettare un occhio nella Basilica di San Clemente – ed è un peccato.
Un peccato non tanto per la basilica in sé, quanto più che essa cela sotto il pavimento: la chiesa infatti, nonostante il rango attribuitole, è relativamente piccola, e statue, affreschi e dipinti sarebbero anche meritevoli di una visita – ma, di nuovo, il vicinato è ingombrante, e se sei una chiesa e hai la sfortuna di trovarti a Roma devi avere qualcosa di ben più che straordinario da offrire se vuoi risaltare nella massa.
La Basilica di San Clemente quel qualcosa ce l’ha, ma è ben nascosto nel sottosuolo: l’edificio, infatti, eretto attorno al dodicesimo secolo e restaurato nel diciottesimo, ricopre fisicamente precedenti costruzioni, oggi parzialmente visitabili: uno splendido esempio di storia letteralmente stratificata.
Il primo livello sotto il pavimento della chiesa è costituito…da un’altra chiesa, dedicata anch’essa a San Clemente ma di epoca ben più remota rispetto all’ingombrante inquilino del piano di sopra: gli spazi, originariamente appartenenti ad una residenza patriziale romana, vennero secondo gli studiosi utilizzati più o meno clandestinamente come luogo di culto già a partire dai primi secoli dopo Cristo, per poi prendere, a partire dal quarto secolo, la forma di una vera e propria basilica, che venne poi più volte modificata nei secoli fino alla definitiva edificazione della chiesa sovrastante.
Al di là dell’importanza che può assumere il ritrovamento di uno dei più antichi luoghi di culto paleocristiani, questa prima basilica ci interessa in particolare anche per un affresco, risalente grossomodo all’undicesimo secolo, che raffigura un episodio tratto dalla tradizione della Passio Sancti Clementis, tramandato in un manoscritto medievale, in cui un nobile ordina ai suoi servi Gosmario, Albertello e Carboncello di catturare e trascinare il povero San Clemente, che però se la ride a lato dell’immagine mentre i servi trascinano stoltamente delle colonne di pietra. L’immagine necessita di una contestualizzazione: la Passio Sancti Clementis ci informa allora che il nobile in questione, Sisinnio, un pagano adirato per la conversione della moglie mediata da San Clemente, ordinò ai suoi scagnozzi di catturare il prelato, salvo poi venire accecato con loro dal buon Dio, ragion per cui si presero un granchio e legarono delle colonne di pietra invece del sant’uomo.
La storiella non è poi rilevante e si confonde facilmente nella moltitudine di leggende del folklore cristiano – no, quello che ci interessa sono le iscrizioni (fortemente sbiadite) che accompagnano le immagini, delle specie di didascalie (o, mi piace pensare, fumetti) che mettono in bocca ai personaggi le seguenti parole: Sisinium (Sisinnio) dice “fili de le pute traite” (“tirate, figli di puttana!”), Gosmarius (Gosmario) esorta il compagno dicendo “Albertel trai” (“tira, Albertello!”), e allo stesso modo quest’ultimo incita il terzo scagnozzo “falite dereto co lo palo carvoncelle” (“spingilo da dietro col palo, Carboncello!”). San Clemente osserva il tutto e commenta placidamente “duritiam cordis vestris saxa traere meruistis” (“a causa della durezza dei vostri cuori, avete meritato di trascinare pietre”).
Come noterete, mentre il santo si esprime in latino, i cattivoni di turno adoperano invece una lingua ibrida: ebbene, eccovi una delle primissime testimonianze scritte di una lingua oramai molto vicina al volgare italiano – e volgare lo è davvero, pensate che già nella prima frase documentata siamo riusciti ad inserire una parolaccia! Questa consapevolezza non può che illuminare d’immenso il visitatore e lo spanzo vale già da sé il biglietto: ma c’è di più.
Il vero tesoro di San Clemente sta ancora più in basso, addirittura sotto la basilica antica: tra i resti del precedente edificio romano troviamo infatti una stanza con soffitto a botte, panche di pietra ai lati e un altare nel mezzo, rappresentante una vaga figura umana che sgozza un animale: si tratta chiaramente di un mitreo, risalente al terzo secolo dopo Cristo; l’omino dell’altare è Mitra e l’animale è un toro, andando a rappresentare la Tauroctonia, uno dei miti fondamentali legati a questo personaggio. Mitra, una divinità orientale fondamentale in culti persiani e induisti, fu “scoperto” dai legionari romani che invasero l’est ed immediatamente accolto (mutatis mutandis) nel Pantheon romano-ellenistico, divenendo oggetto di adorazione specialmente per i soldati, che gli dedicarono diversi luoghi di culto – i mitrei, appunto.
Insomma, in un unico edificio abbiamo tre diversi luoghi di culto riconducibili a svariati movimenti religiosi più o meno collegati tra di loro: cattolicesimo, paleocristianesimo, paganesimo, mitraismo…beh, non ci saranno stati leoni e gladiatori, ma un’occhiata al volo, uscendo dal Colosseo, vale anche la pena di gettarla!