di Giovanni Sorge
È in continua crescita lo Zurich Film Festival, che quest’anno ha quasi raggiunto il tetto dei 100.000 visitatori (98'300 per la precisione) e presentato 160 pellicole d’ogni genere. Da 13 anni Zurigo, per dieci giorni, diventa un po’ il centro del mondo – cinematografico s’intende – richiamando giovani filmmakers spesso alla loro opera prima e star da tutto il mondo: femminili come Glenn Close, Alicia Vikander, Claire Foy, Emmanuelle Seigner, Valeria Golino, Birgit Minichmayr e Léa Pool; maschili come Rob Reiner, Roman Polanski, Marc Forster, Aaron Sorkin, Andrew Garfield, James Marsden, o l’ex vicepresidente statunitense Al Gore, solo per nominare alcune celebrities di quest’edizione.
Come han ricordato i fondatori Nadja Schildknecht und Karl Spoerri durante l’Award Night, il festival è un impegno costante, perché l’ampio staff “è già al lavoro per l’edizione 2018.”
Quest’anno la rassegna oltre alle numerose sezioni nazionali e internazionali, allo ZFF für Kinder e alla serie filmica Border Lines, ha ospitato diverse pellicole dall’Ungheria e strizzato l’occhio al cinema tridimensionale. Alcuni dei premi (gli ‘occhi d’oro’) sono stati assegnati a Pop Aye di Kirsten Tan da Singapore, a Machines dell’indiano Rahul Jain – documentario imperdibile che racconta l’inferno quotidiano degli operai tessili -, a Blue My Mind e ad Avant la fin de l’été delle svizzere Lisa Brühlmann e Maryam Goormaghtigh; mentre la ‘giuria dei bambini’ ha premiato Up in the Sky dello svedese Petter Lennstrand.
I film italiani
Hanno rappresentato l’Italia le ultime opere di Silvio Soldini, Jonas Carpignano e Luca Guadagnino.
Il colore nascosto delle cose di Soldini è una storia toccante valorizzata dalla straordinaria interpretazione di Valeria Golino. L’autore del pluripremiato Pane e Tulipani (2000) – che è anche fine documentarista, ricordo Il fiume ha sempre ragione, dedicato a due figure d’altri tempi di artigiani-tipografi – porta nella fiction il tema della cecità, già affrontato in Per altri occhi (2013) e in Un albero indiano (2015). L’interesse del regista italo-svizzero scaturisce dalla curiosità per l’universo di non vedenti che vanno in barca a vela, sciano e vivono una vita ‘normale’. Il film racconta l’incontro di Teo (Adriano Giannini), un pubblicitario iperattivo, iperconnesso e donnaiolo con l’osteopata Emma, che malgrado la perdita della vista affronta la vita con dignità e determinazione. Teo viene carpito da un mondo – percettivo e affettivo – completamente diverso dal proprio. Le loro sono due esistenze complementari, anche nelle professioni. Si trova così a porsi in discussione e crescere anche rispetto all’onda godereccia e irresponsabile (d’uomo sposato & dongiovanni). Grazie all’ottimo cast (che include pure riusciti ruoli secondari quali l’amica di Emma o la studentessa ipovedente che fatica ad accettare la propria condizione) e quell’inconfondibile tocco poetico che anima i suoi film (e che è altro dal mero buonismo), Soldini narra una storia forte, di sentimenti ma senza essere sentimentalistica: un dramma dalle tinte fiabesche intorno a due diversi approcci a tempo, cose e valori. Perché la poesia evocata da Soldini traspira nella semplicità del quotidiano e nasce dalla disponibilità verso l’inaspettato, che può significare (ri)imparare a (ri)conoscere l’esistenza al di là dell’apparenza, proprio grazie a chi l’apparente non lo vede ma, forse proprio per questo, sa vedere oltre.
Notevole anche A Ciambra di Jonas Carpignano, opera seconda del "regista rivelazione" di Mediterranea (2015) incentrata su Pio (Amato), adolescente rom alle prese con la propria famiglia, la comunità locale e quella degli immigrati africani. Dopo l’arresto del fratello e del padre Pio sente il bisogno di ‘bruciare i tempi’, e lo fa attraverso furti di oggetti che piazza grazie all’amico Ayiva (Koudous Seihon). Romanzo di crescita e familiare calato in un mondo di piccoli crimini e grande umanità, A Ciambra porta lo spettatore nelle viscere di una scelta difficile tra famiglia e amicizia cui Pio è costretto per il suo voler e dover crescere in fretta. È una storia senza redenzione o happy end, di un microcosmo che è anche emblema di una realtà più ampia. Anche stavolta Carpignano adotta uno sguardo estremamente empatico che descrive senza giudicare, ma con grande realismo e rispetto, i suoi personaggi (attori non professionisti, alcuni già presenti in Mediterranea). Bilanciata tra il documentaristico e la fiction, la sceneggiatura può ricordare il neorealismo italiano ma deriva altresì da un intenso sodalizio umano e professionale del regista capace di restituire senza puritanesimo né imbellettamenti, e anche tramite il dialetto, realtà facilmente preda di stereotipi, approcci folkloristici o moralizzanti. Ne è prova la straordinaria naturalezza con cui ritrae la numerosa, vivace famiglia Amato, indubbia coprotagonista di un film che Martin Scorsese considera “bello e commovente''.
Analoga sospensione del giudizio troviamo in un film di tutt’altro genere, Call you by your name di Luca Guadagnino: una storia raffinata – ispirata all’omonimo romanzo di André Aciman – di coming-of-age ambientata nell’Italia dei primi anni 80. Elio (Timothée Chalamet), diciassettenne dalla sensibilità musicale e preda dei turbamenti erotico-ormonali dell’età, è aduso trascorrere l’estate insieme ai genitori in un ambiente colto, erudito e trilingue, tra letture, esecuzioni al pianoforte e tuffi in piscina. Quell’anno ospitano Oliver (Arnie Hammer), dottorando del padre (Michael Stuhlbarg) che è professore di archeologia. Elio avverte per l’atletico e scafato 24enne un’attrattiva che lo turba. E mentre Oliver si trova a discutere con il suo docente la bellezza e l’ageless ambiguity dei corpi dell’iconografia greca, cresce il tumulto dei sensi; in entrambi. L’atmosfera assolata e vacanziera – finemente descritta, tra lunghi pasti e conversazioni erudite, scampagnate in bicicletta e feste paesane - potenzia la brama segreta che gradualmente avvinghia i nostri. Ne deriva un atipico idillio carico di sensualità, anche musicale (la colonna sonora è di Sufjan Stevens), nei corpi dei protagonisti e nelle sequenze open air.
Apprezzato all’estero ma piuttosto snobbato in Italia, Guadagnino si conferma un autore talentuoso e poliedrico (suo è Inconscio Italiano, 2011, documentario sui misfatti dell’occupazione italiana dell’Etiopia basato su materiale d’archivio dell’Istituto Luce) con una storia (più che d’amore, direi) di passione omosessuale che però trascende l’etichetta di ‘genere’; perché descrive le sempiterne dinamiche del desiderio – quale esso sia. E sembra dunque comporre, insieme ai precedenti Io sono l’amore (2009) e A Bigger Splash (2015), una trilogia del desiderio – in varianti inconsuete ma forse proprio perciò capaci di scavare a fondo. Alla passione segreta di Elio e Oliver manca – volutamente – un contraddittorio (urlato o lacrimoso, scioccato o moralistico) e la fine sensibilità culturale della famiglia di Elio potrebbe risultare poco rappresentativa dell’Italia che allora – e certo in parte anche oggi – mal avrebbe digerito quanto accadeva tra i due e che solo il padre intuisce. Il suo discorso a quattr’occhi con il figlio, travolto dalla partenza dell’amico, è un capolavoro di sensibilità e intelligenza. Perché, senza troppo esplicitare, difende il valore dell’amicizia e la fedeltà ai sentimenti dimostrando quanto la cultura, in senso nobile, sappia entrare nella vita e aiuti a districarsi nei grovigli emotivi. E quindi a crescere, nonostante o proprio grazie al dolore.
Momenti clou ed esplorazioni psicologiche
Fra gli eventi più attesi del festival vi è stato il premio alla carriera conferito a Glenn Close (protagonista del recente The Wife di Björn Runge). Elegante, ironica e brillante, ha affascinato il pubblico di uno stracolmo Filmpodium rispondendo a ogni domanda compresa quella, d’obbligo, sul suo ruolo in Les Liaisons Dangereuses di Stephen Frears (1988), decisivo per la sua carriera. E riguardo alla spietatezza della Marquise de Merteuil ha voluto fare una digressione sul bagno di sangue avvenuto quel giorno (1° ottobre) a Las Vegas per rimarcare l’attualità dell’odio quando si fa talmente totalizzante da diventare “mental disease”. Ma alla domanda su quanto la abbiano influenzata i suoi ruoli di donna forte ha risposto ridendo: “I did’t get any date!”
Tra i film psicologicamente più intriganti The Killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthimos, psicotriller con Nicole Kidman e Colin Farrell che gioca sul limbo fra paranormale e psicosomatica; un viaggio nei meandri dell’odio attorno alla personalità inquietante di un adolescente (Barry Keoghan) il cui desiderio di vendetta va a distruggere l’apparente normalità di una famiglia altoborghese.
Di tutt’altro genere ma di pari potenza psicologica è Matar a Jesus. opera prima di Laura Mora Ortega ambientata a Medellín, in cui uno ‘scomodo’ professore di filosofia può finire freddato dai colpi di pistola sparati da un ragazzo in motorino che scompare facilmente nel traffico e dalle indagini di una polizia restia a rintracciare il mandante. Così Paula (Natasha Jaramillo) si mette sulle tracce dell’assassino del padre, Jesús (Giovanny Rodríguez), gli si accosta scoprendo quanto egli sia a sua volta vittima di una realtà brutale in cui spaccio, furti ma anche l’omicidio di uno sconosciuto sono meri espedienti per sopravvivere. Jesús avverte nella ragazza misteriosa una diversità che lo può redimere, mentre Paula è lacerata tra una crescente vicinanza al giovane assassino e il suo desiderio di vendetta. Ne deriva zona grigia di tensione umana e psicologica ove s’intersecano le categorie di bene e male, innocenza e colpevolezza, sullo sfondo infernale di una giungla metropolitana in cui violenza e corruzione sembrano endemiche, fino a un finale di pregnanza simbolica.
Standig ovation ha accolto Colin Warner quando è salito sul palco insieme a Matt Ruskin, il regista di Crown Heights che racconta la sua storia. Arrestato a Brooklin a 18 anni con l’accusa di un omicidio mai commesso, Warner ha trascorso 21 anni in carcere uscendone nel 2001 grazie alla tenacia della moglie, del fratello e di un avvocato che è riuscito a scagionarlo da un’accusa che pareva ineliminabile per un immigrato da Trinidad. Crown Heights ripercorre con estrema fedeltà – grazie a un superbo Keith Stanfield – l’odissea carceraria e l’ardua ricostruzione dei fatti inquinati da chi preferì, in luogo della verità, un capro espiatorio.
Attualità e forza dei documentari
La vecchia idea del documentario esclusivamente centrato sul passato e un po’ muffoso è definitivamente passé. Come confermano diversi lavori, spesso realizzati con mezzi ridotti e ricerche notevoli su temi di bruciante attualità: ben vengano dunque festival quali quello zurighese che dedicano loro ampio spazio. Si va dunque da Ex Libris – The New York Public Library di Frederick Wiseman, uno sguardo alla programmazione culturale e alla ‘stanza dei bottoni’ di una delle biblioteche più prestigiose al mondo, a The Arrow of Time di Lelia Conners, che fa riflettere quanto lontani siano i tempi in cui Michail Gorbatschow, in accordo con Reagan, avviava la demilitarizzazione delle superpotenze. Vi è poi uno spiazzante Die Gentrifizierung bin ich: Beichte eines Finsterlings di Thomas Haemmerli, personalissimo viaggio tra Zurigo e alcune delle maggiori metropoli al mondo che riconsidera l’idea della cosiddetta ‘gentrificazione’ e diverte nel ridimensionare l’inveterata paura elvetica della “Überfremdung”; mentre Kim Dotcom: Caught in the Web di Annie Goldson ritrae una fra le più controverse (e potenti) figure del mondo cibernetico – in modo però fin troppo cucito sul protagonista. Di puro eroismo parla invece Matthew Heinemann in City of Ghosts, che segue tre giovani attivisti siriani in fuga tra Germania e Turchia impegnati a documentare la brutalità dell’ISIS attraverso il portale Raqqa is Being Slaughtered Silently (RBSS).
Godibile ed esemplare nella sua semplicità è Atelier de conversation di Bernhard Braunstein, vivace ritratto di emigrati che s’incontrano al Centre Pompidou di Parigi per dialogare intorno ai temi più svariati secondo un setting di poche regole: confrontarsi evitando il litigio e, se possibile, questioni politiche. Ne emergono storie personali e impressioni sull’Europa, come quella di una giovane cinese che dice: “è vero che in Cina non abbiamo la crisi, ma noi la domenica non sappiamo neanche cosa sia. Si lavora senza mai staccare. Ormai tutte famiglie sono monofiliali, ogni figlio ha lo stress della famiglia. Non c’è la crisi economica, ma non siamo felici”.
Ambiente, arte e scienza
Ve la ricordate, infine, il protagonista di Arancia meccanica, omicida per sollazzo, obbligato a guardare film che lo facciano ravvedere? Forse, se Donald Trump venisse sottoposto a simile cura intensiva - (non che voglia affermare la sua insanità mentale, già se ne occupa autorevolmente The Dangerous Case of Donald Trump edito da Bandy Lee) a base di documentari come An Inconvenient Sequel: Truth to Power di Al Gore (o come alcuni dei film presentati al Festival für die Erde, v. p. 58) - capirebbe che il riscaldamento globale non è la solita bufala catastrofista. Il secondo documentario dell’ex vicepresidente americano contribuisce a far capire – per così dire di testa e di pancia – lo stato attuale del pianeta in base a documentazione scientifica presentata in modo chiaro e comprensibile (ad es. in riferimento alla crescente violenza degli uragani) indicando altresì con forza la direzione da prendere in ambito energetico. Al Gore vi fornisce le ‘prove’ che attestano quanto l’uomo, l’innalzamento demografico e i consumi smodati siano responsabili di un umano, troppo umano riscaldamento climatico. In un Filmpodium gremito il premio nobel per la pace ha chiamato a una responsabilità politica, sociale e culturale prima che sia troppo tardi. Al tema è stato dedicato uno degli stimolanti “ZFF Talks” (con due esimi esperti di ricerca ambientale, Thomas Stocker e Michael Zemp) nonché, indirettamente, An Exhibition of Scientific Pictures allestita dalla Swiss National Science Foundation (http://www.snsf.ch/) all’Arena City: dove quelle che a un primo sguardo sembravano opere impressioniste o astratte erano invece riproduzioni di circuiti neuronali, visualizzazioni di correnti atmosferiche o rocce cristalline di milioni d’anni. Una mostra che schiude interrelazioni insospettate tra scienza e arte ricordandoci come la seconda, quando scruta la materia con l’occhio più della tecnica più sofisticata, supera qualsiasi immaginazione.